«Sean, non...»

Prima che potesse finire la frase, King era già entrato. Michelle cominciò a passeggiare con le mani in tasca e, mentre sentiva l'acidità corroderle lo stomaco, cercò di assumere l'atteggiamento di chi non ha una sola preoccupazione al mondo. Tentò addirittura di fischiettare, ma scoprì che non poteva perché quell'improvviso attacco d'ansia le aveva inaridito le labbra.

«Accidenti a te, Sean King» sibilò sottovoce.

 

King si ritrovò in una cucina che, alla luce della torcia, gli sembrò piccola e poco utilizzata. Jorst doveva essere il tipo di persona che mangia quasi sempre fuori. Poi Sean passò in soggiorno, una stanza ordinata e arredata con semplicità; gli scaffali che occupavano tutte le pareti erano carichi, ovviamente, di volumi di Goethe, Francesco Bacone, John Locke e del sempre popolare Machiavelli.

Lo studio, che si trovava accanto al soggiorno, era l'ambiente che meglio rifletteva la personalità di Jorst. Sulla scrivania c'erano pile di libri e documenti, il pavimento era ingombro e anche il piccolo divano in pelle era pieno di oggetti accatastati. Nella stanza stagnava un forte odore di fumo, sia di sigaretta sia di sigaro; sul pavimento King notò un portacenere pieno di mozziconi. Alle pareti erano appesi scaffali di poco prezzo, curvi sotto il peso dei libri. Sean diede un'occhiata veloce alla scrivania, aprì qualche cassetto e cercò eventuali nascondigli segreti, ma non trovò niente del genere. Dubitava che, estraendo uno dei libri sugli scaffali, si sarebbe aperto un passaggio segreto, ma a scanso di equivoci sfilò un paio di volumi. Non successe niente.

Jorst aveva detto che stava lavorando a un libro e le condizioni dello studio sembravano confermarlo, dato che ovunque c'erano appunti, bozze e schemi. Evidentemente l'organizzazione non era il punto forte del professore. King si guardò intorno disgustato, pensando che non avrebbe potuto resistere dieci minuti in quelle condizioni, anche se in gioventù il suo appartamento aveva avuto un aspetto anche peggiore. Ma lui almeno era cresciuto ed era uscito dal suo porcile; Jorst, a quanto pareva, no. Per un attimo Sean pensò di chiamare Michelle perché desse un'occhiata a quel disastro. Probabilmente l'avrebbe fatta sentire meglio.

Scavando sotto i mucchi sulla scrivania, trovò un'agenda, che però risultò stranamente poco informativa. Passò quindi al piano di sopra, dove c'erano due camere da letto, di cui una soltanto palesemente utilizzata. Qui Jorst era più ordinato. Gli abiti erano ben sistemati nel piccolo guardaroba, le scarpe disposte su una rastrelliera di cedro. King sbirciò sotto il letto, ma venne salutato solo da grumi di polvere. Il bagno adiacente non rivelò che un asciugamano bagnato sul pavimento e alcuni articoli da toilette sul lavandino. Passò alla seconda camera, ovviamente la stanza degli ospiti. Anche lì c'era un piccolo bagno comunicante, privo però di asciugamani o altri oggetti da toilette. Su una parete della camera da letto notò uno scaffale su cui non c'erano libri, ma solo alcune foto, sopra le quali, una alla volta, fece scorrere il raggio di luce della torcia: erano tutte di Jorst in compagnia di varie persone, che King non riconobbe. Finché non arrivò all'ultimo viso.

La voce che lo chiamava da sotto lo fece sussultare. «Sean, porta subito giù il sedere! Jorst è tornato.»

King andò alla finestra, in tempo per vedere Jorst che immetteva la sua vecchia auto ingombrante nel vialetto. Spense la torcia, scese cautamente ma in fretta la scala ed entrò in cucina, dove Michelle lo stava aspettando. Uscirono dalla porta posteriore, si allontanarono dalla casa, aspettarono che Jorst entrasse e poi bussarono alla porta principale.

Il professore aprì, li guardò sorpreso e poi lanciò un'occhiata sospettosa al di sopra delle loro spalle. «È vostra quella Lexus parcheggiata lungo il marciapiede?» King annuì. «Non ho visto nessuno dentro, quando ci sono passato di fianco. E non ho visto nessuno di voi due sul marciapiede.»

«Be', io ero sdraiato sul sedile posteriore in attesa che lei rientrasse» disse King. «E Michelle era andata a chiedere a un suo vicino se sapeva a che ora sarebbe tornato.»

Jorst non sembrò crederci, ma li fece entrare comunque e li accompagnò in soggiorno.

«Allora, avete parlato con Kate?» domandò.

«Sì. Ci ha detto che lei l'aveva avvertita della nostra visita.»

«Vi aspettavate che non lo facessi?»

«Sono sicuro che voi due siete molto legati.»

Jorst fissò King con intenzione. «Era la figlia di un collega e in seguito è stata anche una mia studentessa. Qualunque diversa implicazione sarebbe un errore.»

«Be', considerando che lei e sua madre stavate parlando di sposarvi, come minimo sarebbe diventato suo patrigno» obiettò King. «E pensare che noi non sapevamo neppure che lei e Regina vi foste frequentati.»

Jorst sembrò molto a disagio. «E perché avreste dovuto? Non sono affari vostri. Ora, se volete scusarmi, sarei piuttosto occupato.»

«Giusto, il libro che sta scrivendo. A proposito, di che cosa tratta?»

«Lei si interessa di scienze politiche, Mr King?»

«Io mi interesso di un mucchio di cose.»

«Capisco. Se proprio vuole saperlo, è uno studio sui modelli di voto nel Sud dalla fine della Seconda guerra mondiale ai tempi nostri e sull'impatto di tale voto sulle elezioni nazionali. La mia teoria è che il Sud di oggi non sia più il "Vecchio Sud". Anzi, si tratta ormai di una delle comunità di immigrati più eterogenee e ricche di fermenti che questo paese abbia mai conosciuto dall'inizio del secolo scorso. Certo, il Sud non è ancora una roccaforte del liberalismo o del pensiero radicale, ma non è più nemmeno quello di Via col vento o del Buio oltre la siepe. In Georgia, per esempio, la componente demografica in maggiore e più rapida crescita è quella mediorientale.»

«Posso capire come indù e mussulmani che convivono con redneck e battisti possa essere un tema affascinante» commentò King.

«Mi piace» fece Jorst. «Redneck e battisti... Le dispiace se lo uso come titolo per uno dei miei capitoli?»

«Prego, faccia pure. Lei non conosceva i Ramsey prima di Atticus, vero?»

«No, non li conoscevo. Arnold è arrivato ad Atticus circa due anni prima di me. Prima di venire qui, io insegnavo in un college del Kentucky.»

«Quando dico i Ramsey, intendo sia Arnold sia Regina.»

«La mia risposta è la stessa. Non conoscevo nessuno dei due prima di venire qui. Perché, Kate ha detto qualcosa di diverso?»

«No» rispose subito Michelle. «Ci ha detto che sua madre era una sua buona amica.»

«Tutti e due erano miei buoni amici. Penso che Regina mi vedesse come uno scapolo senza speranza, così faceva del suo meglio per farmi sentire sempre il benvenuto e per mettermi a mio agio. Era una donna veramente straordinaria. Collaborava al corso di teatro del college e ha anche recitato in qualche spettacolo. Era un'attrice incredibile, sul serio. Arnold mi aveva parlato del suo talento, specie di quando era più giovane, ma io avevo sempre pensato che stesse esagerando. E invece, quando la vedevi sul palcoscenico, ti ipnotizzava. Ed era buona e gentile quanto dotata di talento. Erano in molti a volerle bene.»

«Ne sono certo» disse King. «E, dopo la morte di Arnold, voi due...»

«Non è andata così!» lo interruppe Jorst. «Arnold era morto da molto tempo, quando abbiamo cominciato a considerarci qualcosa di più che buoni amici.»

«Arrivando al punto di parlare di matrimonio.»

«Io le avevo chiesto di sposarmi e lei aveva accettato» disse freddamente Jorst.

«Ma poi è morta.»

I lineamenti del professore si contrassero. «Sì.»

«Anzi, si è suicidata.»

«Così dicono.»

«Lei non ci crede?» domandò subito Michelle.

«Era felice. Aveva accettato di sposarmi. Non penso di essere troppo vanitoso se dico che mi sembra piuttosto improbabile che l'idea di sposarmi l'abbia spinta al suicidio.»

«Quindi, crede che sia stata assassinata?»

«Ditemelo voi!» scattò Jorst. «Siete voi quelli che se ne vanno in giro a indagare. Scopritelo. Non è un campo di mia competenza.»

«Kate come ha preso la notizia del matrimonio?»

«Benissimo. Kate amava suo padre. Io le ero simpatico. Sapeva che non avrei cercato di prendere il suo posto. Sono sinceramente convinto che volesse la felicità di sua madre.»

«Lei è stato un contestatore della guerra in Vietnam?»

Jorst sembrò assorbire senza problemi l'improvviso cambio di direzione. «Sì, insieme a milioni di altre persone.»

«Mai in California?»

«Dove volete arrivare, esattamente?»

«Cosa direbbe se le raccontassimo che un uomo era andato a trovare Arnold Ramsey allo scopo di ottenerne la collaborazione per uccidere Clyde Ritter? E che quell'uomo aveva fatto il suo nome?»

Jorst lo guardò con freddezza. «Direi che chiunque glielo abbia detto si sbaglia di grosso. Ma, se anche fosse vero, non ho certo il controllo sulla gente che fa il mio nome durante una conversazione, le pare?»

«Giusto. Lei è convinto che Arnold abbia agito da solo?»

«Sì, finché non mi verrà presentata una prova credibile del contrario.»

«A detta di tutti, Ramsey non era un uomo violento, eppure ha commesso il più violento degli atti: l'omicidio.»

Jorst si strinse nelle spalle. «Chi può sapere cosa pulsa nel profondo di un cuore umano?»

«È vero. E in gioventù Arnold Ramsey aveva partecipato ad alcune manifestazioni di protesta. Una delle quali ha forse determinato la morte violenta di una persona» disse King.

Jorst lo fissò: «Di cosa sta parlando?».

Sean gli aveva rivelato quell'informazione al solo scopo di valutare la sua reazione. «Un'altra cosa: la mattina in cui Ramsey ha ucciso Ritter, siete andati al Fairmount Hotel insieme o su due auto diverse?»

A suo onore, Jorst non mostrò alcuna reazione. Il suo viso rimase impassibile. «Sta dicendo che quella mattina io ero al Fairmount?»

King sostenne il suo sguardo. «E lei ci sta dicendo che non c'era?»

Jorst rifletté per qualche istante. «E va bene: c'ero. Come centinaia di altre persone. E allora?»

«E allora? Come per il suo rapporto con Regina, direi che è un dettaglio abbastanza significativo che ha dimenticato di dirci.»

«Perché avrei dovuto dirvelo? Non ho fatto niente di male. E, per rispondere alla sua domanda, sono andato all'hotel per conto mio.»

«E deve essersene andato un secondo dopo che Ramsey ha sparato, altrimenti non avrebbe avuto il tempo di passare a prendere Regina e di andare ad avvertire Kate nel bel mezzo della lezione di algebra.»

Jorst fissò inespressivo i suoi due visitatori, ma c'erano gocce di sudore sulla sua fronte ampia. «La gente correva in ogni direzione. Io ero terrorizzato come tutti gli altri. Avevo visto quello che era successo. E non volevo che Regina e Kate lo venissero a sapere dai notiziari, così sono corso ad avvertirle io stesso, più in fretta che ho potuto. È stata una premura da parte mia e non mi piace il modo in cui sembrate trarre una conclusione negativa da quello che io ho ritenuto essere un gesto di altruismo.»

King gli andò vicinissimo. «Perché è andato al Fairmount quella mattina? Anche lei odiava Ritter?»

«No, naturalmente no.»

«E allora, perché?» insistette King.

«Era un candidato presidenziale. Non ne capitano molti da queste parti. Volevo rendermi conto di persona, dopo tutto è il mio lavoro.»

«E se le dicessi che per me sono tutte stronzate?» fece Sean.

«Io non le devo alcuna spiegazione» dichiarò Jorst.

King si strinse nelle spalle. «Ha ragione. Le manderemo l'FBI e il Servizio segreto, così la spiegazione potrà darla a loro. Possiamo usare il suo telefono?»

«Un momento, aspetti un momento!» King e Michelle guardarono Jorst, in attesa. «Okay, okay» disse il professore. Deglutì nervosamente, passando lo sguardo da Sean alla ragazza. «Ero preoccupato per Arnold: era così pieno di rabbia nei confronti di Ritter che temevo potesse fare qualcosa di stupido. Vi prego di credere che neppure per un secondo ho pensato che avesse in mente di uccidere quell'uomo. Non ho mai saputo che avesse un'arma finché non ha sparato. Ve lo giuro.»

«Vada avanti» disse King.

«Arnold non sapeva che c'ero anch'io. L'ho seguito. La sera prima mi aveva detto che sarebbe andato alla manifestazione. Io sono rimasto in fondo alla sala e c'era una tale ressa che non mi ha notato. Arnold si era tenuto distante da Ritter, per cui ho cominciato a pensare di essermi preoccupato più del necessario. Ho deciso di andarmene e mi sono avviato verso la porta. È stato più o meno in quel momento che Arnold ha cominciato ad avvicinarsi a Ritter. Arrivato alla porta, mi sono voltato. Giusto in tempo per vedere Arnold che estraeva la pistola e sparava. Ho visto Ritter cadere a terra e poi ho visto lei fare fuoco e uccidere Arnold. È stato allora che tutta la sala è praticamente esplosa, ma io stavo già correndo più in fretta che potevo. Sono riuscito a uscire subito perché ero già alla porta. Ricordo che ho quasi travolto una cameriera dell'albergo, anche lei accanto alla porta.»

Michelle e King si scambiarono un'occhiata: Loretta Baldwin.

Jorst, adesso pallidissimo, continuò: «Non riuscivo a credere che fosse successo davvero, sembrava un incubo. Sono corso alla mia auto e sono partito subito. Non ero l'unico: c'era un mucchio di gente che stava scappando».

«L'ha mai raccontato alla polizia?»

«Cosa c'era da raccontare? Ero là, ho visto cos'era successo e sono scappato, esattamente come centinaia di altre persone. Non è che le autorità avessero bisogno della mia testimonianza o roba del genere.»

«Ed è andato a prendere Regina e glielo ha detto. Perché?»

«Perché?! Santo cielo, suo marito aveva appena sparato a un candidato presidenziale. E poi era rimasto ucciso anche lui. Dovevo dirglielo. Non lo capisce?»

King estrasse dalla tasca la foto che aveva preso nella camera da letto al piano di sopra e la porse a Jorst. Il professore la prese con la mano tremante e fissò il viso sorridente di Regina Ramsey.

«Credo di poterlo capire, specie se lei era innamorato di Regina già da allora» rispose Sean a bassa voce.

 

54

 

«Cosa ne pensi?» domandò Michelle, mentre si allontanavano in auto.

«Può darsi che ci abbia detto la verità» rispose King. «Forse pensava di dover essere il primo a entrare in scena per consolare la povera vedova: trai vantaggio dalla morte del tuo amico mentre reciti la parte del buon samaritano.»

«D'accordo, è un tipo sgradevole. Ma non necessariamente un assassino.»

«Non saprei. Vale comunque la pena di tenerlo d'occhio. Non mi piace l'idea che per tutti questi anni abbia taciuto il fatto di essere stato al Fairmount e che avesse intenzione di sposare Regina. Basta questo a metterlo tra i primi posti nella mia lista dei sospetti.»

Michelle sobbalzò, come avesse ricevuto un'improvvisa pugnalata. «Aspetta un momento! Potrà sembrarti pazzesco, però stammi a sentire.» Sean la guardò, in attesa. «Jorst ammette di essere stato al Fairmount. Era innamorato di Regina. E se fosse stato proprio lui a convincere Arnold a uccidere Ritter? Ovviamente sapeva che Ramsey lo odiava. Era suo amico e collega. Ramsey gli avrebbe dato retta.»

«Kate però dice che l'uomo che ha sentito non era Jorst.»

«Ma non può esserne sicura. Jorst potrebbe avere alterato un po' la voce proprio perché sapeva che Kate era in casa. Okay, diciamo che è Jorst quello che stringe il patto con Ramsey. Così vanno all'hotel, armati tutti e due.»

King seguì il filo deduttivo della ragazza. «Ramsey spara e Jorst invece no. Scivola fuori dalla sala, nasconde la pistola nel ripostiglio, dove viene visto da Loretta, e si precipita ad avvertire Regina e Kate.»

«Con l'idea di sposare un giorno la vedova.»

«Be', ha aspettato un bel po' di tempo prima di chiederglielo» obiettò King.

«Potrebbe averglielo chiesto anche prima e lei avergli risposto di no. Oppure Jorst ha preferito aspettare per un tempo ragionevole in modo da non suscitare sospetti. O magari gli ci è voluto tutto quel tempo perché Regina si innamorasse di lui.» Lanciò a Sean un'occhiata ansiosa. «Cosa ne dici?»

«Ha senso, sul serio. Poi però Regina è morta. E Jorst non è riuscito a mettersi con lei.»

«Tu credi davvero che Regina Ramsey sia stata uccisa?»

«Be', se dobbiamo credere a Jorst e loro due stavano veramente per sposarsi, perché mai avrebbe dovuto uccidersi? Jorst dice che da parte di Kate non c'erano problemi.»

«E se invece non fosse stato così?» domandò Michelle.

«Cosa vuoi dire?»

«Kate amava suo padre. Mi ha detto che, se sua madre non lo avesse lasciato, lui forse non avrebbe ucciso Ritter. Però lo fa e muore. In seguito Regina decide di sposare un collega del padre. E muore.»

«Stai dicendo che Kate ha assassinato sua madre?»

Michelle alzò le mani. «Sto solo dicendo che è una possibilità. Ma non voglio crederci, Kate mi piace.»

Sean sospirò. «È come con un palloncino: premi su un lato e sull'altro salta fuori una protuberanza.» Guardò la ragazza. «Hai messo insieme quella cronologia che ti avevo chiesto?»

Michelle annuì ed estrasse dalla borsa un blocco per appunti. «Arnold Ramsey nasce nel 1949. Si diploma nel 1967 e frequenta Berkeley dal 1967 fino al 1974, quando ottiene la libera docenza. Per inciso, quello stesso anno si sposa con Regina. La coppia tira avanti come può fino al 1982, quando Arnold viene assunto ad Atticus. All'epoca, Kate non ha ancora un anno.» Si interruppe e guardò King, che sembrava confuso. «Cosa c'è che non va?»

«Be', secondo quanto ci ha raccontato Kate, Ramsey sarebbe rimasto coinvolto nella morte di un poliziotto durante una manifestazione di protesta contro la guerra. Era stato questo a dare inizio a tutti i suoi problemi. Ora, Kate ci ha detto che Berkeley gli aveva consentito con riluttanza di conseguire la docenza, e solo perché aveva già completato tutto il lavoro, tesi compresa. Di conseguenza l'incidente deve essere accaduto più o meno all'epoca di quegli esami.»

«Giusto. E allora?»

«Se Ramsey ha conseguito la libera docenza nel 1974, in quell'anno non poteva manifestare contro il Vietnam. Nixon firmò il cessate il fuoco all'inizio del 1973 e, sebbene entrambe le parti si accusassero reciprocamente di violazioni del patto, i combattimenti ripresero solo nel 1975. E se l'incidente con l'agente di polizia fosse successo prima che Ramsey ottenesse la sua docenza, scommetto che Berkeley l'avrebbe semplicemente espulso.»

«Mi sembra un ragionamento corretto.»

«Ma se nel 1974, l'anno in cui è stato ucciso il poliziotto, Ramsey e la moglie non stavano protestando contro la guerra, contro cosa stavano protestando?»

Michelle fece scrocchiare le dita. «Millenovecentosettantaquattro? Tu hai nominato Nixon. È stato l'anno del Watergate, giusto?»

King annuì, pensieroso. «E ha senso che un personaggio come Ramsey protestasse contro uno come Nixon, esigendone le dimissioni. Cosa che poi Nixon ha fatto nell'agosto di quello stesso anno.»

«Ma Kate ha detto che era una manifestazione contro la guerra, a Los Angeles.»

«No: Kate ci ha detto quello che le aveva raccontato sua madre. E ci ha detto anche che Regina beveva molto, in quel periodo. Può essere benissimo che abbia riferito alla figlia data, evento e addirittura luogo sbagliati.»

«Perciò, l'incidente che ha determinato la morte dell'agente potrebbe essere successo a Washington e non a Los Angeles, e riguardare Nixon e non il Vietnam?»

«Se è così, dovremmo essere in grado di reperire tutti i dettagli.»

«E lo studio legale intervenuto a difesa di Ramsey? Pensi che avesse sede a Washington?»

«Possiamo scoprirlo.» King digitò un numero sul cellulare. «Chiedo a Joan di controllare, lei è bravissima a scovare informazioni.» Ma non ci fu risposta e Sean lasciò un messaggio.

Si rivolse di nuovo a Michelle: «Se qualcuno ha tirato Ramsey fuori dai guai coinvolgendo uno studio legale, si tratterebbe di qualcosa di concreto e noi dovremmo essere in grado di trovarne traccia».

«Non necessariamente. Non c'è modo di ricostruire i movimenti di tutti a distanza di tanti anni. Insomma, Jorst all'epoca poteva essere a Los Angeles a lanciare sassi contro il City Hall e noi oggi non saremmo mai in grado di provarlo. Anche trovare qualcuno che possa parlarci di quei fatti potrebbe essere impossibile. E se non c'è niente negli archivi pubblici, puf, è finita.»

King annuì. «Quello che dici è assolutamente logico. Ma dobbiamo comunque controllare. Non ci costerà niente, a parte il tempo.»

«Già» convenne Michelle. «Ma ho la brutta sensazione che il tempo si stia esaurendo molto rapidamente.»

 

55

 

Sean e Michelle passarono la notte in un motel nei pressi di Atticus e rientrarono a Wrightsburg il mattino seguente. Parks li stava aspettando a casa di King.

«Hai notizie di Joan?» gli chiese Sean. «Ieri ho provato a telefonarle, ma non rispondeva.»

«Le ho parlato ieri sera. Ha trovato qualcosa su Bob Scott tra le carte che vi avevo portato.» Aggiornò i due sul mandato d'arresto emesso in Tennessee.

«Se si tratta dello stesso Bob Scott, forse potrà portarci da qualche parte e darci qualche risposta» commentò King.

«Richiama Joan, così decideremo come procedere.»

Sean digitò il numero della donna, ma ancora una volta non ottenne risposta, così chiamò la locanda dove Joan alloggiava. Mentre ascoltava il portiere, impallidì e si sentì mancare le ginocchia. Sbatté il ricevitore e gridò: «Maledizione!».

Parks e Michelle lo fissavano senza capire.

«Sean, cos'è successo?» chiese Michelle sottovoce.

King scosse la testa incredulo. «Joan» disse. «È stata rapita.»

 

Joan aveva occupato un piccolo cottage sul retro del Cedars Inn. La sua borsa e il cellulare erano sul pavimento della stanza. Il vassoio della cena era intatto. A terra c'erano anche le scarpe che Joan aveva calzato il giorno prima; una aveva il tacco rotto. Il cottage aveva una porta secondaria che dava in un punto del parco dove Joan avrebbe potuto essere portata fuori e caricata a bordo di un'auto senza che nessuno vedesse. Quando King, Michelle e Parks arrivarono sul posto, il capo Williams era già lì con alcuni dei suoi uomini, occupati a trascrivere dichiarazioni e a raccogliere gli scarsi indizi disponibili.

Il cameriere che avrebbe dovuto servire la cena a Joan era stato interrogato a fondo. Era giovane, lavorava alla locanda da un paio d'anni ed era visibilmente scosso dall'accaduto. Dichiarò che, mentre stava andando al cottage, era stato avvicinato da una ragazza la quale, dopo aver avuto conferma che la cena era per Joan, aveva detto di essere sua sorella, appena arrivata per una visita, e di volerle fare una sorpresa portandole lei stessa la cena. La cosa gli era sembrata del tutto innocente. Inoltre la ragazza, che era molto carina, gli aveva dato venti dollari di mancia per il disturbo. Lui le aveva lasciato il carrello ed era tornato alla locanda. Tutto qui. E la descrizione della giovane donna era troppo generica per essere di qualche utilità.

Il capo Williams si avvicinò al gruppetto dei tre. «Maledizione, non faccio altro che correre da tutte le parti per omicidi e rapimenti. Questo era un posto tranquillo fino a non molto tempo fa.»

Con il permesso del capo, i tre presero la scatola contenente il materiale su Bob Scott e poi tennero una piccola riunione nel parcheggio. Parks ripeté parola per parola la conversazione che aveva avuto con Joan.

«Devono averla presa subito dopo che ha parlato con me. Joan mi ha raccontato di Bob Scott. E io le ho detto che Scott poteva benissimo essersi trasformato in un traditore e che sarebbe stato una talpa perfetta per chiunque progettasse di uccidere Ritter, anche se so che voi due non ne siete convinti. Volevamo aspettare che tornaste dall'incontro con Kate Ramsey, prima di decidere le prossime mosse.»

King andò a dare un'occhiata alla BMW di Joan e Parks entrò nel cottage per parlare con il capo Williams. La polizia aveva già esaminato l'auto e non aveva trovato niente.

Michelle si avvicinò a Sean e gli posò una mano sulla spalla. «Stai bene?»

«Avrei dovuto prevederlo.»

«E come? Non sei un veggente.»

«Joan e io avevamo parlato con un mucchio di persone. Mildred Martin è stata uccisa subito dopo che siamo stati da lei. Non ci voleva un grande sforzo d'immaginazione per capire che adesso sarebbe toccato a Joan.»

«O a te! E cosa avresti dovuto fare? Il baby sitter? Non conosco molto bene Joan, ma non credo che avrebbe accettato.»

«Non ci ho neppure provato, Michelle. Non ero preoccupato per la sua sicurezza. E adesso...»

«Possiamo trovarla. Viva.»

«Senza offesa, ma i nostri precedenti nel ritrovamento di persone vive non sono tra i migliori.»

«Mi dispiace» disse Michelle.

«Anche a me.»

Parks li raggiunse. «Sentite, farò un controllo su quel Bob Scott del Tennessee e, se è il nostro Scott, andrò giù con un po' della mia gente per fare due chiacchiere con lui. Potrete unirvi a noi, se volete.»

«Vogliamo» rispose Michelle per entrambi.

 

56

 

Parks partì per iniziare le indagini su Bob Scott, mentre King e Michelle tornarono a casa. La ragazza preparò il pranzo, ma poi non riuscì a trovare Sean. Alla fine lo vide seduto sul molo e lo raggiunse.

«Ho preparato un po' di minestra e dei sandwich. Non sono un tipo molto casalingo, ma è roba commestibile.»

«Grazie» rispose Sean assente. «Vengo tra un minuto.»

Michelle gli si sedette accanto. «Stai pensando a Joan?»

King si voltò verso di lei e poi si strinse nelle spalle.

«Non credevo che voi due foste ancora così amici» disse la ragazza.

«Non lo siamo!» Poi, più calmo, aggiunse: «Non lo siamo. Ma molto tempo fa siamo stati più che amici».

«So che per te è difficile.»

Per un po' rimasero seduti in silenzio, poi Sean disse: «Esibizionista».

«Cosa?»

«Nell'ascensore. Joan ha fatto l'esibizionista per me.»

«L'esibizionista? E come?»

«Impermeabile e sotto non molto. Forza, ammettilo: probabilmente hai pensato a qualcosa del genere, dopo aver saputo degli slip sul lampadario.»

«Okay, forse ci ho pensato. Ma perché Joan doveva fare una cosa simile? Tu eri in servizio.»

«Perché aveva ricevuto un biglietto, che lei riteneva mio, in cui le si chiedeva di farmi una sorpresa da quel maledetto ascensore. Dopo la notte che avevamo passato insieme, lei deve aver pensato che parlassi di un adeguato seguito dello spettacolo.»

«Chi credi che abbia scritto il biglietto? Se davvero intendevano distrarti con Joan, come potevano sapere a che ora sarebbe scesa?»

«L'incontro con i sostenitori era programmato dalle dieci alle dieci e trentacinque. Joan lo sapeva. E chiunque stesse progettando di uccidere Ritter era al corrente della finestra temporale entro la quale poteva agire. Ma se anche Joan non avesse fatto niente, sono sicuro che avrebbero tentato comunque di uccidere Ritter.»

«Per Joan è stato piuttosto rischioso. Non è che fosse obbligata a farlo.»

«Be', a volte l'amore ti fa fare cose strane.»

«Pensi si sia trattato di quello?»

«In pratica è ciò che mi ha detto. Per tutti questi anni ha sospettato che in qualche modo fossi coinvolto nella morte di Ritter. Pensava che l'avessi incastrata. Ma non poteva parlare perché si sarebbe rovinata la carriera. Quando però ha visto il biglietto appuntato sul cadavere di Susan Whitehead, si è resa conto che forse eravamo stati incastrati tutti e due.» Fece una pausa. «Mi ha chiesto perché, se sospettavo di lei e io ero pulito, non avevo mai detto a nessuno quello che aveva fatto.»

«E tu cosa le hai risposto?»

«Niente. Forse non so il perché.»

«Io penso che tu non abbia mai creduto davvero che Joan fosse colpevole di qualcosa, a parte una scarsa capacità di giudizio.»

«Ho visto l'espressione dei suoi occhi, quando è esploso il colpo. Non avevo mai visto nessuno al mondo più scioccato di lei. No, Joan non c'entrava.» Si strinse nelle spalle. «Ma che importanza ha adesso?»

«Come dicevi, l'amore a volte può spingerti a fare cose strane. E direi che chi aveva organizzato tutto conosceva i tuoi sentimenti nei confronti di Joan. Sapeva che non l'avresti tradita. In effetti, tu e Joan eravate reciprocamente vincolati.» Guardò King con aria interrogativa. «Non è un reato avere a cuore qualcuno, Sean.»

«A volte hai la sensazione che lo sia. È un po' destabilizzante veder ricomparire nella tua vita qualcuno che pensavi se ne fosse andato per sempre.»

«Specie se quello che pensavi otto anni fa è risultato essere sbagliato.»

«Non sono innamorato di Joan» disse King. «Ma mi importa molto quello che le succede. La rivoglio sana e salva.»

«Faremo tutto il possibile.»

«Potrebbe non essere abbastanza» ribatté Sean cupo. Poi si alzò in piedi e si avviò verso casa.

 

Stavano finendo di mangiare quando squillò il telefono fisso. King rispose, ascoltò perplesso e poi disse a Michelle: «È per te. Dice di essere tuo padre».

«Grazie. Gli ho dato il tuo numero, spero che non ti dispiaccia. La ricezione dei cellulari è un po' irregolare, da queste parti.»

«Nessun problema.» Le passò il ricevitore.

Michelle e il padre parlarono per circa cinque minuti. La ragazza trascrisse qualcosa su un foglietto, ringraziò e riattaccò.

Sean stava risciacquando i piatti prima di metterli nella lavastoviglie. «Cosa succede?» domandò.

«Ti ho già detto che quasi tutti i maschi della mia famiglia sono poliziotti. Mio padre, che è capo della polizia a Nashville, è membro di tutte le associazioni e organizzazioni nazionali di poliziotti, in molte delle quali ricopre una carica importante. Gli ho chiesto di fare delle ricerche su quell'incidente a Washington, per vedere se riusciva a trovare qualcosa sull'agente ucciso durante una manifestazione di protesta intorno al 1974.»

King si asciugò le mani e le si avvicinò. «E cos'ha trovato?»

«Un nome. Solo un nome, ma potrebbe portarci da qualche parte.» Diede un'occhiata agli appunti. «Paul Summers. All'epoca era nella polizia di Washington. Adesso è in pensione e vive a Manassas. Mio padre lo conosce, dice che potrebbe avere qualche informazione e che è disposto a parlare con noi.»

King si infilò la giacca. «Andiamo.»

Mentre stavano uscendo di casa, Michelle disse: «Sean, non mi piace che per tutti questi anni tu abbia taciuto quello che ha fatto Joan, ma ti ammiro. La lealtà vale qualcosa».

«Davvero? Non sono sicuro di essere d'accordo. Anzi, a volte la lealtà ti frega.»

 

57

 

Paul Summers abitava a Manassas, Virginia, in una casa a piani sfalsati in stile ranch, vecchia di una trentina d'anni e ormai assediata su ogni lato da nuovi condomini. Summers, in jeans e maglietta bordeaux dei Redskins, aprì la porta e guidò i suoi ospiti nel piccolo soggiorno. Chiese a King e a Michelle se desideravano qualcosa da bere, ma i due risposero di no. Sui sessantacinque anni, il padrone di casa aveva bei capelli bianchi, un sorriso cordiale, carnagione lentigginosa, grossi avambracci e uno stomaco ancora più grosso.

«E così tu sei la figlia di Frank Maxwell» disse a Michelle. «Se ti raccontassi come tuo padre si vanta di te alle convention nazionali, diventeresti più rossa della maglietta che ho addosso.»

Michelle sorrise. «La piccolina di papà... A volte è imbarazzante.»

«Comunque, diavolo, quanti padri hanno una figlia come te? Mi vanterei anch'io.»

«In effetti Michelle ti fa sentire un po' inferiore» disse King, lanciando un'occhiata maliziosa alla ragazza. «Ma poi impari a conoscerla e ti rendi conto che anche lei è un essere umano.»

L'espressione di Summers si fece più seria. «Ho seguito quella storia di Bruno e per me puzza. In passato ho lavorato spesso con il Servizio segreto e ho sentito un mucchio di storie sui protetti che fanno cose da pazzi, lasciando i ragazzi del Servizio nei guai. Ti hanno fregato, Michelle, chiaro e semplice.»

«Grazie. Mio padre mi ha detto che lei forse ha delle informazioni che potrebbero esserci utili.»

«È così. Io ero una specie di storico ufficioso della polizia all'epoca in cui ero ancora in servizio e, lasciatemelo dire, quelli erano tempi parecchio irrequieti. La gente pensa che l'America di oggi sia un casino? Dovrebbero andarsi a vedere gli anni Sessanta e Settanta.» Mentre parlava, era andato a prendere un raccoglitore. «Ho qui qualcosa che penso potrebbe aiutarvi.» Inforcò un paio di occhiali.

«Nel 1974 il Watergate stava dilaniando il paese. La gente ce l'aveva a morte con Nixon.»

«Immagino che diverse manifestazioni siano sfuggite al controllo» disse King.

«Oh, sì. Le forze di polizia di Washington ormai erano abituate a dimostrazioni su grande scala, ma non si poteva mai sapere.» Si sistemò gli occhiali e per qualche istante controllò i suoi appunti. «L'intrusione al Watergate avviene nell'estate del 1972 e, circa un anno dopo, il paese viene a sapere delle registrazioni su nastro di Nixon, il quale, sulla base dei privilegi dell'esecutivo, rifiuta di renderle pubbliche. Nell'ottobre del 1973, Nixon destituisce il procuratore speciale e la situazione comincia a precipitare, si parla già di impeachment. Nel luglio del 1974 la Corte suprema si pronuncia contro Nixon per quanto riguarda le registrazioni e in agosto lui si dimette. Ma nel maggio del 1974, prima che la Corte deliberasse, la situazione a Washington era tesissima. Ci fu una gigantesca marcia di protesta lungo Pennsylvania Avenue, con migliaia di partecipanti.

«Noi avevamo messo in campo squadre antisommossa, decine e decine di agenti a cavallo, la Guardia Nazionale, centinaia di agenti del Servizio segreto, le squadre speciali SWAT, perfino un maledetto carro armato... insomma, tutto quanto. Io ero in servizio da dieci anni, avevo assistito alla mia parte di disordini e tafferugli, ma ricordo ancora di avere avuto paura. Mi sembrava di essere in qualche paese del Terzo Mondo, non negli Stati Uniti d'America.»

«E un agente di polizia è morto?» chiese Michelle.

«No, uno della Guardia Nazionale» rispose Summers. «Lo hanno trovato in un vicolo con la testa fracassata.»

«Ed è stato effettuato un arresto» disse King. «Ma come facevano a sapere con certezza chi era stato? Doveva essere un caos.»

«Be', un arresto c'è stato e stavano anche per formalizzare le accuse, ma poi non se ne è fatto più niente. Non so perché. Insomma, il tizio della Guardia Nazionale era morto e qualcuno l'aveva ucciso, nessun dubbio su questo. Della storia si occuparono i giornali, ma poi la Corte suprema si pronunciò contro il presidente, Nixon si dimise nell'agosto del '74 e da quel momento in poi è stato questo l'argomento dominante. Ci si è come dimenticati della morte di quell'uomo e tutta la storia è semplicemente svanita. Dopo Robert Kennedy e Martin Luther King, il Vietnam e il Watergate, credo che il paese ormai fosse stanco.»

King si piegò in avanti. «Ha i nomi dell'accusato, degli agenti che effettuarono l'arresto, dei procuratori distrettuali?»

«No, mi dispiace. Stiamo parlando di trent'anni fa. E io non ero coinvolto personalmente nel caso, ne ho sentito parlare solo in seguito. Perciò non sarei neppure in grado di riconoscere eventuali nomi che possiate avere in mente.»

«E i giornali? Lei ha detto che ne hanno parlato.»

«Sì, ma non credo che abbiano fatto i nomi delle persone coinvolte. A quell'epoca succedevano cose strane. Se devo dire la verità, i media non si fidavano per niente del governo. Troppe situazioni contrarie all'etica. E odio doverlo dire, dato che ero un poliziotto, ma anche diversi uomini in blu hanno fatto cose che non avrebbero dovuto. A volte superavano il limite, specie con i capelloni hippy che venivano in città. Alcuni dei miei colleghi non avevano molta pazienza. C'era veramente una mentalità da "noi contro di loro".»

«Forse è successo qualcosa del genere anche nel caso che ci interessa. Lei ha detto che delle accuse non se ne è fatto più niente» osservò Michelle. «Forse erano state fabbricate.»

«Forse. Ma non posso saperlo con certezza.»

«Okay» disse King. «La ringraziamo molto per il suo aiuto.»

Summers sorrise. «State per ringraziarmi anche di più.» Mostrò un foglietto. «Ho un nome per voi: Donald Holmgren.»

«Chi è?» gli chiese Michelle.

«Uno dei difensori d'ufficio di allora. Parecchi dei manifestanti di quel giorno erano molto giovani e metà di loro era completamente fatta. Era come se tutti quelli che protestavano contro la guerra, hippy e simili, avessero spostato l'attenzione su Nixon. Per cui penso che ci siano buone probabilità che l'indiziato per l'omicidio della guardia nazionale fosse uno di loro. Quei ragazzi, se non avevano i soldi per un avvocato, all'inizio venivano rappresentati dall'Ufficio del gratuito patrocinio. Holmgren dovrebbe essere in grado di dirvi qualcosa di più. Adesso è in pensione, ma abita in Maryland. Io non gli ho parlato, ma, se lo prendete nel modo giusto, con voi potrebbe anche aprirsi.»

«Grazie, Paul» disse Michelle. «Siamo in debito con lei.» Lo abbracciò.

«Ehi, di' al tuo vecchio che tutto quello che raccontava su di te è vero. Magari i miei ragazzi fossero riusciti bene anche solo la metà di te.»

 

58

 

Donald Holmgren abitava in una villetta alla periferia di Rockville, Maryland. La casa era piena di libri, riviste e gatti. Vedovo, sui settant'anni, con una folta capigliatura grigia, indossava un maglione leggero e pantaloni sportivi. Liberò il divano del soggiorno da libri e gatti e fece accomodare King e Michelle.

«La ringraziamo per averci ricevuto con un preavviso così breve» gli disse Sean.

«Nessun problema. Le mie giornate non sono più molto indaffarate.»

«Sicuramente lo erano quando lavorava all'Ufficio del gratuito patrocinio» osservò Michelle.

«Oh, può dirlo forte. Il mio incarico ha coperto un periodo particolarmente interessante.»

«Come le ho accennato al telefono» iniziò King «stiamo indagando sulla morte di una guardia nazionale avvenuta intorno al maggio 1974.»

«Sì, ricordo bene quel caso. Ringraziando il cielo, non è che i soldati della Guardia Nazionale vengano uccisi tutti i giorni. Ma quello è stato un giorno particolare. Stavo dibattendo un caso alla Corte federale, quando è cominciata la dimostrazione. Il procedimento è stato interrotto e siamo andati tutti a guardare la televisione. Non avevo mai visto niente del genere e spero di non vederlo mai più. Avevo l'impressione di essere nel bel mezzo della presa della Bastiglia.»

«Ci risulta che in un primo tempo sia stata accusata una persona per quel delitto.»

«È vero. Era omicidio di primo grado, ma dopo essere venuti a conoscenza dei dettagli eravamo sicuri di riuscire a derubricare le imputazioni.»

«Quindi, lei sa chi se ne è occupato personalmente?»

«Sì, io» fu la sorprendente risposta. Michelle e King si scambiarono un'occhiata. Holmgren spiegò: «Lavoravo all'Ufficio del gratuito patrocinio da circa sedici anni, fin da quando si chiamava ancora Legai Aid Agency. Avevo anche rappresentato la difesa in diversi casi di alto profilo. Comunque, a essere sincero, credo che nessun altro volesse quel caso particolare».

«Intende dire che le prove contro l'indiziato erano schiaccianti?» domandò Michelle.

«No, le prove non erano affatto schiaccianti. Se ben ricordo, l'indiziato era stato arrestato perché stava uscendo dal vicolo in cui era avvenuto l'omicidio. Un cadavere, in particolare un cadavere in uniforme, e dappertutto branchi di hippy che scagliano pietre... be', è la ricetta perfetta per il disastro. Credo che abbiano arrestato la prima persona che hanno visto. Dovete capire: la città era sotto assedio e tutti avevano i nervi tesi fino al punto di rottura. Se non ricordo male, l'indiziato era uno studente di college. Io non credevo necessariamente che avesse commesso l'omicidio o, se lo aveva fatto, che ne avesse avuto l'intenzione. Forse c'era stato un tafferuglio e il soldato era caduto, battendo la testa. Naturalmente a quei tempi l'ufficio del procuratore distrettuale aveva la reputazione di fabbricare le accuse. Accidenti, abbiamo visto agenti di polizia mentire sotto giuramento, scrivere denunce false, fabbricare prove... di tutto.»

«Ricorda il nome dell'indiziato?»

«Da quando mi ha telefonato non ho fatto che cercare di ricordarlo, ma non ci sono riuscito. Era giovane e intelligente, questo lo ricordo. Mi dispiace, ma ho avuto migliaia di casi in seguito e su quello in particolare non ho lavorato per molto tempo. Ricordo le imputazioni e le difese meglio dei nomi. E poi sono passati trent'anni.»

King decise di tentare. «Si chiamava Arnold Ramsey?»

La bocca di Holmgren si aprì. «Accidenti, non posso giurarci, ma credo proprio che sia il nome giusto. Come fa a saperlo?»

«Sarebbe troppo lungo da spiegare. Lo stesso Arnold Ramsey, otto anni fa, ha sparato a Clyde Ritter, uccidendolo.»

La bocca di Holmgren si spalancò. «Era lo stesso tizio?»

«Già.»

«Be', in questo caso, forse mi dispiace che quella volta se la sia cavata.»

«Allora, però, non le è dispiaciuto, vero?»

«No, per niente. Come dicevo, in quei giorni certa gente non si preoccupava tanto della verità quanto dell'ottenere condanne, in qualsiasi modo.»

«Ma nel caso di Ramsey non ci sono riusciti.»

«No. Anche se lo ritenevo un caso limite, dovevo comunque lavorare con i fatti di cui disponevo e non erano molto incoraggianti. Inoltre, il governo faceva veramente il duro. Voleva dare un esempio, e io non è che lo biasimassi del tutto. Poi, però, mi hanno tolto il caso.»

«Perché?»

«L'accusato ha nominato un altro difensore. Di qualche studio legale dell'Ovest, mi pare. Credo che Ramsey, se era lui, venisse da là. Ho pensato che la sua famiglia avesse saputo cosa gli era successo e si fosse precipitata ad aiutarlo.»

«Ricorda il nome dello studio?»

Holmgren rifletté. «No. Troppi anni e troppi casi nel frattempo.»

«È quello studio, in qualche modo, è riuscito a far cadere le accuse?»

«Non solo, ho sentito dire che hanno anche fatto cancellare l'arresto dalla fedina penale e da ogni verbale. Devono essere stati davvero in gamba. A quei tempi, in base alla mia esperienza con il governo, una cosa del genere succedeva di rado.»

«Be', lei ha detto che certi procuratori non avevano un comportamento molto etico. Forse qualcuno è stato pagato» suggerì King. «Procuratori e poliziotti.»

«Immagino che possa essere successo» ammise Holmgren. «Se sei disposto a montare un caso, forse sei disposto anche a intascare una bustarella per smontarlo. L'accusa in quel caso era rappresentata da un giovane, ambizioso come il diavolo, che mi ha sempre dato l'impressione di essere fin troppo furbo. Ma era in gamba, ben deciso a spiccare il volo verso incarichi più importanti. Personalmente non l'ho mai visto oltrepassare i limiti, anche se altri nel suo ufficio lo facevano. So che mi è dispiaciuto per il suo capo, che si è preso tutte le colpe quando, qualche anno dopo, tutta la merda di quell'ufficio è finita nel ventilatore. Billy Martin era una brava persona. Non se lo meritava.»

King e Michelle fissarono Holmgren, totalmente stupefatti. Alla fine King ritrovò la voce: «Ricorda il nome del pubblico accusatore che sosteneva l'accusa contro Arnold Ramsey?».

«Oh, quello non lo dimenticherò mai. Era il candidato alla presidenza che poi è stato rapito. John Bruno.»

 

59

 

Dalla casa di Holmgren, King e Michelle andarono direttamente a Richmond, alla Virginia Commonwealth University. Kate Ramsey non si trovava al Center for Public Policy, ma dall'addetta al ricevimento riuscirono a farsi dare il numero di casa della ragazza. Al telefono rispose però la compagna d'appartamento di Kate, la quale non sapeva dove si trovasse la sua coinquilina, che non vedeva dal mattino. Quando Michelle le chiese se potevano andare a parlarle, accettò esitando.

Durante il tragitto, Michelle domandò: «Tu credi che Kate sappia di Bruno e suo padre? Per favore, dimmi di no. Non può saperlo».

«Ho la sgradevole sensazione che tu abbia torto.»

Arrivati all'appartamento di Kate si presentarono all'amica, che si chiamava Sharon e sembrava piuttosto riluttante a parlare con loro, ma poi Michelle le mostrò il distintivo e la ragazza diventò molto più collaborativa. Con il suo permesso, diedero un'occhiata alla piccola camera da letto di Kate, ma non trovarono niente che potesse essere utile. Kate era un'accanita lettrice e la sua stanza traboccava di testi che avrebbero messo a dura prova la maggior parte dei docenti. Poi King trovò una scatola sul ripiano più alto del guardaroba. Conteneva un kit di pulizia per pistole e una scatola di proiettili nove millimetri. Sean guardò Michelle con aria funerea e lei scosse la testa con tristezza.

«Lei sa come mai Kate ha una pistola?» chiese King a Sharon.

«È stata aggredita e derubata. O, almeno, è quello che mi ha detto. L'ha portata qui sette o otto mesi fa. Io odio avere quella cosa in giro, ma Kate ha il porto d'armi e tutti i permessi. E va anche al poligono per esercitarsi. È una buona tiratrice.»

«Confortante. Kate aveva la pistola con sé quando è uscita questa mattina?»

«Non lo so.»

«A parte le persone collegate all'università viene qualcuno a trovarla? Un uomo, per esempio?»

«Per quello che ne so, non ha mai neanche degli appuntamenti. È sempre in giro per qualche marcia o comizio, oppure partecipa a riunioni per protestare contro qualcosa. Certe volte mi fa venire il capogiro con tutto quello che le passa per la testa. Io riesco appena a seguire le lezioni e a fare contento il mio ragazzo, non posso preoccuparmi anche per come va il mondo.»

«Sì, capisco. Ma io mi riferivo a un uomo più anziano, forse oltre i cinquant'anni.» King descrisse Thornton Jorst, ma Sharon scosse la testa.

«No, non credo. Però un paio di volte l'ho vista scendere da un'auto davanti a casa. Non ho visto chi c'era al volante, ma penso che fosse un uomo. Quando le ho fatto qualche domanda, Kate è diventata molto evasiva.»

«Saprebbe descriverci l'auto?»

«Una Mercedes, grossa.»

«Perciò doveva essere un uomo ricco. Quando ha visto la Mercedes per la prima volta?» domandò Michelle.

«Forse nove o dieci mesi fa. Me lo ricordo perché Kate aveva cominciato da poco il suo lavoro postlaurea qui da noi. Non ha molti amici. Se prima frequentava qualcuno, qui non lo fa. Comunque, non c'è quasi mai.»

Mentre Sharon parlava ancora, Michelle si portò all'altezza dell'orecchio il kit di pulizia e lo agitò. Sentì un rumore leggero. Infilò le dita sotto la fodera e tirò fuori un piccolo oggetto: era una chiave. La mostrò a Sharon: «Ha idea di cosa sia? Sembra quella di un box ripostiglio».

«Ce ne sono diversi nel seminterrato» rispose la ragazza. «Non sapevo che Kate ne avesse uno.»

Michelle e King scesero nel seminterrato, trovarono il box, ne confrontarono il numero con quello sulla chiave e lo aprirono. King accese la luce e tutti e due si ritrovarono a fissare cataste di scatole.

Sean respirò a fondo e disse: «Okay, sarà un fallimento totale o una miniera d'oro».

Quattro scatole dopo ebbero la risposta: album di ordinati ritagli di giornale riguardanti due diversi soggetti. Uno era l'omicidio Ritter. Sean e Michelle osservarono decine di articoli e fotografie, comprese alcune di King, un paio di una Kate Ramsey molto più giovane, dall'aria triste e sconsolata, e una di Regina. Gli articoli erano vistosamente sottolineati a penna. «Non è poi così strano che li abbia conservati» osservò Michelle. «In fondo era suo padre.»

Ma l'altro soggetto era raggelante. Il materiale riguardava unicamente John Bruno, dalla sua iniziale carriera come pubblico accusatore fino alla candidatura presidenziale. King trovò due articoli ingialliti che parlavano delle indagini per corruzione nell'ufficio del procuratore distrettuale a Washington e citavano con grande evidenza il nome di Bill Martin, ma non quello di Bruno. In cima a ogni pagina Kate però aveva scritto: "John Bruno".

«Merda» disse King. «La nostra piccola attivista politica è coinvolta in roba seria. E che Bruno se lo sia meritato o meno, Kate lo ha etichettato come il pubblico accusatore disonesto Ghe ha rovinato la vita di suo padre.»

«Quello che non capisco» disse Michelle «è che questi articoli sono usciti addirittura prima che Kate nascesse. Dove se li è procurati?»

«L'uomo della Mercedes. L'uomo che l'ha spinta a odiare Bruno per quello che ha fatto al padre. O che non ha fatto. Può darsi perfino che Kate incolpi Bruno della morte di suo padre, pensando che a Harvard o a Stanford sarebbe stato felice, sua moglie non l'avrebbe lasciato e lui non avrebbe mai sparato a uno come Ritter.»

«Ma tutto questo a che scopo?»

«Vendetta? Per Kate, per qualcun altro.»

«E come si collega a Ritter, a Loretta Baldwin e a tutto il resto?»

King alzò le mani in un gesto di frustrazione. «Maledizione, vorrei saperlo anch'io. Ma so questo: Kate è solo la punta dell'iceberg. E adesso qualcos'altro ha senso.» Michelle lo guardò. «Il fatto che Kate abbia voluto incontrarci per farci quell'improvvisa, nuova rivelazione su Thornton Jorst.»

«Pensi che sia stata spinta a farlo? Per depistarci?»

«Forse. O forse l'ha fatto di sua iniziativa, per qualche altra ragione.»

«O forse ci ha detto la verità» tentò Michelle.

«Stai scherzando? Finora non l'ha fatto nessuno. Perché mai adesso le regole dovrebbero cambiare?»

«Be', devo riconoscere che Kate Ramsey è un'attrice di classe mondiale. Non l'avrei mai etichettata come coinvolta.»

«Dicono che sua madre sia stata una superstar sotto questo punto di vista. Forse Kate ha ereditato i suoi geni.» King rifletté per un momento, poi disse: «Telefona a Parks e vedi cos'ha trovato su Bobby Scott. Tutto a un tratto il mio ex caposcorta mi interessa molto».

 

Risultò che Parks nelle ultime ore si era dato molto da fare. Aveva avuto conferma dell'indirizzo di Bob Scott in Tennessee e spiegò a Michelle che il posto presentava parecchie caratteristiche intriganti. Si trattava di una tenuta di dodici ettari nella parte orientale dello Stato, una zona rurale e montagnosa. La proprietà aveva fatto parte di una base dell'esercito durante la Seconda guerra mondiale e per i venti anni successivi, poi era stata venduta a privati. Da allora aveva cambiato mano diverse volte.

«Quando ho scoperto che quel posto un tempo apparteneva all'esercito degli Stati Uniti» disse Parks a Michelle «mi sono chiesto come mai Scott avesse voluto comprarlo. Per un po' aveva vissuto in Montana, da vero estremista di destra amante dei gruppi paramilitari, perciò perché trasferirsi? Insomma, ho studiato mappe, progetti e diagrammi e ho scoperto che quella maledetta proprietà dispone di un bunker sotterraneo, scavato nel fianco di una collina. Durante la Guerra Fredda, il governo e i militari ne avevano costruiti a migliaia, da quelli piccoli e semplici a quello mastodontico di Greenbrier Resort in West Virginia, che avrebbe dovuto ospitare il Congresso degli Stati Uniti in caso di conflitto nucleare. Il bunker di Scott è parecchio elaborato, con cucina, stanze dotate di cuccette, bagni, poligono di tiro, impianti per il filtraggio dell'acqua e dell'aria. Quando la proprietà è stata venduta, probabilmente l'esercito non si ricordava nemmeno più del bunker. Un'altra cosa interessante: nel bunker ci sono anche celle per i prigionieri di guerra. Nel caso ci fosse stata un'invasione, immagino.»

«Una prigione» disse Michelle. «Molto comoda per tenerci candidati presidenziali rapiti.»

«È quello che ho pensato anch'io. Inoltre, questa tenuta in Tennessee è a due ore scarse d'auto da dove è stato ucciso Ritter e da dove è stato rapito Bruno. Le tre località formano più o meno un triangolo.»

«Sei sicuro che si tratti dello stesso Bob Scott?» domandò Michelle.

«Sicurissimo. Ma senza quel vecchio mandato sarebbe stato molto difficile rintracciarlo: è praticamente entrato in clandestinità.»

«Hai ancora in programma di andare laggiù?»

«Abbiamo trovato un giudice del Tennessee molto disponibile che ci ha rilasciato un mandato di perquisizione. Andremo a fare una visita a quel posto, ma con una scusa perché non voglio che nessuno si faccia sparare. Una volta dentro, vedremo. È un po' rischioso da un punto di vista legale, ma, se riusciamo a tirare fuori Bruno prima che gli succeda qualcosa e a impacchettare Scott, credo che ne valga la pena. Lasceremo che ci pensino gli avvocati a sistemare tutto.»

«Quando partite?»

«Ci metteremo un po' a preparare tutto e l'operazione deve avvenire in pieno giorno. Non voglio che quel pazzo di Scott cominci a sparare a quelli che magari pensa siano intrusi. Sono circa quattro o cinque ore di macchina, quindi direi domattina presto. Voi volete ancora venire?»

«Sì» rispose Michelle, lanciando uno sguardo a King. «E può darsi che là dentro troviamo anche qualcun altro.»

«Chi?» domandò Parks.

«Una studentessa laureata che cova un vecchio rancore.» Michelle chiuse la comunicazione e aggiornò King sulle novità. Poi prese un foglio e cominciò a mettere giù alcuni punti chiave.

«Okay, ecco la mia brillante teoria numero due, che presuppone il non coinvolgimento di Jorst. Esaminiamola punto per punto» cominciò Michelle. «Scott: è lui la talpa, organizza l'omicidio di Ritter con Ramsey. Quale sia la motivazione, non lo so; forse soldi, forse una segreta ragione di vendetta contro Ritter.» Fece schioccare le dita. «Un momento. Mi rendo conto che può sembrare pazzesco, ma non può essere che i genitori di Scott abbiano dato tutti i loro soldi a Ritter quando faceva ancora il predicatore? Ricordi cosa ci ha detto Jorst in proposito? Anche le mie ricerche sul passato di Ritter hanno confermato che era molto ricco, sostanzialmente grazie alle "donazioni" alla sua Chiesa, una Chiesa di cui in un certo senso era il solo beneficiario.»

«Ci avevo pensato anch'io, ma sfortunatamente i fatti sono diversi. Ho lavorato con Scott per anni e conosco la sua storia: i suoi genitori sono morti quando lui era ancora un bambino. E, in ogni caso, non avevano soldi da lasciargli.»

Michelle assunse un'espressione frustrata. «Peccato. Quello sarebbe stato un buon incentivo. Ehi, cosa ne dici di Sidney Morse? I suoi genitori erano ricchi. Forse loro hanno dato il denaro a Ritter. In questo caso, Morse potrebbe essere coinvolto nella morte di Ritter.»

«No. La madre ha lasciato tutti i soldi a Morse. Ricordo di averne sentito parlare all'epoca in cui Sidney è entrato nello staff della campagna perché la madre è morta proprio in quel periodo. E comunque sappiamo che i casi Bruno e Ritter sono in qualche modo collegati. Anche se Sidney avesse avuto qualcosa a che vedere con la morte di Ritter, non potrebbe essere coinvolto nel rapimento di Bruno. A meno che non lo abbia messo al tappeto con una pallina da tennis.»

«Okay, è vero. Va bene, partiamo ancora dal presupposto che dietro l'omicidio Ritter ci sia Bob Scott. E questa è la prima parte. Diciamo semplicemente che Scott viene pagato per collaborare all'organizzazione dell'assassinio. Gli costa la carriera, ma pazienza. Pianta tutto e se ne va a vivere nel selvaggio Montana.»

«E Bruno? Che collegamento potrebbe avere Scott con lui?»

«E se avesse organizzato l'attentato a Ritter perché lui e Ramsey erano vecchi amici? Mi rendo conto che può sembrare assurdo: Scott aveva combattuto in Vietnam e Ramsey invece aveva protestato contro la guerra, ma sono successe cose anche più strane. Forse si erano conosciuti a qualche manifestazione e Scott, nauseato dalla guerra, si era convertito alle idee di Ramsey. Per cui, se ha effettivamente collaborato con Arnold per l'omicidio di Ritter, è possibile che conosca anche Kate. Inoltre sa che Bruno ha rovinato la carriera di Ramsey con accuse fabbricate e lo dice alla ragazza. Kate cresce odiando Bruno, in seguito Scott rientra in qualche modo nel quadro e i due uniscono le forze per rapire Bruno e fargliela pagare. Questa ipotesi spiegherebbe tutto.»

«Quindi l'uomo che è andato a trovare Arnold Ramsey, quello che Kate ha sentito pronunciare il nome di Thornton Jorst... stai dicendo che era Scott?»

«Be', se Kate è davvero coinvolta, su questo punto potrebbe avere mentito per sviarci, come abbiamo già detto. Allora, cosa ne pensi?»

«Che sono deduzioni piuttosto buone.»

«Credo che tu e io facciamo un'ottima squadra.»

King respirò a fondo. «Adesso dobbiamo soltanto aspettare e vedere cosa ci porta domani.»

 

60

 

Partirono all'alba del giorno dopo a bordo di tre diversi veicoli. Sul primo c'erano Parks, King e Michelle, seguiti da due suburban cariche di agenti federali con l'espressione truce e il giubbotto antiproiettile.

Sean e Michelle avevano messo al corrente Parks degli sviluppi relativi a Kate Ramsey e gli avevano anche esposto la loro teoria su come tutti i puntini potessero essere collegati, per quanto precariamente, fino a formare un disegno sensato.

Il marshal non sembrava convinto. «Per come stanno andando le cose in questo affare, mi aspetto un'altra maledetta sorpresa da un momento all'altro.»

Durante il viaggio, bevendo caffè e mangiando ciambelle, Parks illustrò il piano d'attacco. «Mandiamo davanti alla casa un nostro furgone, camuffato da mezzo della contea per i rilievi topografici. Uno dei nostri ragazzi va alla porta con il blocco per appunti, mentre un altro scarica gli strumenti per i rilievi. Nel furgone ci saranno altri uomini. I rimanenti avranno già circondato il posto, stabilendo un perimetro. Il nostro ragazzo bussa e, appena qualcuno apre, saltano fuori tutti gli altri armati fino ai denti e facciamo irruzione a passo di carica. Se invece in casa non c'è nessuno, entriamo con calma e diamo seguito al nostro mandato di perquisizione. Con un po' di fortuna, non verrà sparato un solo colpo e ce ne torneremo a casa sani e salvi.»

King sedeva dietro. Si allungò e toccò Parks su una spalla. «Sai già che Scott è un fanatico delle armi, ma è anche un esperto del corpo a corpo. È grazie a questo che è riuscito a scappare dai vietcong. Si racconta che abbia passato sei mesi ad affilare una fibbia fino a farla diventare una lama di rasoio, con cui poi ha tagliato la gola ai suoi due carcerieri. Meglio non commettere errori con lui.»

«Capito. Comunque dalla nostra abbiamo la sorpresa e forze preponderanti. Come da manuale. È il modo migliore che conosco.» Poi Parks aggiunse: «Credi davvero che là dentro troveremo Bruno e forse Joan?».

«Forse» rispose King. «Ma non so se respireranno ancora.»

 

Simmons e l'uomo della Buick stavano completando i preparativi. I generatori erano operativi e al loro posto. I fili erano stati posati, gli esplosivi piazzati e i detonatori erano pronti. Anche gli oggetti che l'uomo della Buick aveva approvato con tanta diligenza erano al loro posto, pronti per il grande momento. Tutti i dispositivi erano stati provati e controllati almeno dodici volte. Adesso dovevano soltanto funzionare perfettamente anche al tredicesimo tentativo e la vittoria non sarebbe mancata.

Ammirando la propria opera, frutto di tanta pianificazione e di tanto lavoro, l'uomo della Buick non si concedeva neppure un'espressione soddisfatta. Simmons se ne accorse e posò la scatola che stava ricontrollando.

«Be', è quasi ora di andare in scena. Adesso facciamo sul serio. Dovresti essere contento.»

«Va' a controllarli» ordinò brusco l'uomo della Buick, che poi si sedette e, ancora una volta, ripassò mentalmente ogni dettaglio.

Simmons andò a dare un'occhiata ai prigionieri nelle rispettive stanze. Al momento privi di sensi - il loro cibo era stato drogato - si sarebbero svegliati tra non molto. E, se tutto fosse andato secondo i piani, lui sarebbe stato in viaggio verso l'estero con abbastanza soldi da bastargli per parecchie vite. Tornò dall'uomo della Buick, ancora seduto a occhi chiusi, con la testa china.

«Quanto tempo pensi che manchi al loro arrivo?» domandò Simmons esitante; sapeva che il suo interlocutore bramava il silenzio.

«Poco. Ormai dovrebbero arrivare al bunker in Tennessee da un momento all'altro.»

«Avranno una sorpresa.»

L'uomo della Buick lo guardò con disprezzo. «L'idea è quella. Riesci a capire minimamente i pensieri e la pianificazione che stanno dietro tutto questo? Pensi che sia stato fatto solo per farti divertire?»

Simmons abbassò nervosamente lo sguardo. «E lei quando torna?»

«Arriverà in tempo. Non vuole certo perdersi la prossima puntata. In effetti anch'io non vedo l'ora.» Guardò il suo compagno. «E tu? Sei pronto?»

Simmons raddrizzò le spalle con aria sicura di sé. «Io sono nato pronto per questa cosa.»

L'uomo della Buick lo fissò assorto per un momento, poi chinò la testa e chiuse di nuovo gli occhi.

 

61

 

Al sicuro a bordo del fuoristrada, Michelle e King osservarono con i binocoli la suburban che trasportava cinque o sei uomini di Parks avanzare lungo la strada sterrata verso la casa, o, più propriamente, il cottage. King si guardò intorno e pensò che quella zona non avrebbe potuto essere più remota e isolata. Si trovavano su un crinale delle Great Smoky Mountains e la difficile topografia dell'area aveva spinto al limite il motore del fuoristrada a trazione integrale. Ovunque intorno a loro c'erano pini, frassini e querce, una barriera che avrebbe portato il buio due ore prima del normale. Anche adesso, alle undici di mattina, sembrava che stesse già calando il crepuscolo e nell'aria c'era un freddo umido che penetrava fin dentro le ossa, perfino a bordo del fuoristrada.

King e Michelle guardarono la suburban fermarsi davanti al cottage e l'autista scendere dal mezzo. Non c'erano altri veicoli in vista, dal camino dell'edificio non usciva fumo e lo spiazzo sterrato antistante il cottage non era ingentilito neppure da un cane, da un gatto o da un pollo. Gli agenti federali a bordo del furgone, tutti pesantemente armati, erano invisibili dietro i vetri scuri. King pensò che la tattica del cavallo di Troia aveva funzionato per migliaia di anni e sperò che la striscia vincente continuasse anche in quell'occasione. Mentre se ne stava seduto, visualizzando gli agenti nascosti in attesa, un altro pensiero prese confusamente forma: cavallo di Troia? Sean per il momento lo accantonò e riportò l'attenzione sull'assedio imminente.

Il cottage era circondato dal resto degli agenti, distesi a terra dietro le rocce che affioravano su tutti i lati, i fucili puntati su precisi bersagli: le porte, le finestre e altri punti essenziali. Sean pensò che se nel cottage c'era qualcuno avrebbe dovuto essere un mago per sfuggire a quella rete. Il bunker sotterraneo, però, era più problematico. Ne aveva discusso con Parks. I disegni che il marshal era riuscito a procurarsi mancavano di un elemento critico: la disposizione delle porte esterne e/o delle prese di ventilazione di cui il bunker doveva essere necessariamente provvisto. Per prevenire possibili fughe attraverso quelle uscite, Parks aveva appostato degli uomini nei punti dove sembrava logico ipotizzare accessi esterni.

L'agente sceso dal furgone si avviò verso la porta del cottage, mentre il suo collega scaricava un treppiede da topografo. Sugli sportelli del veicolo era stato applicato lo stemma del Dipartimento dei lavori pubblici della contea. Sotto i giacconi voluminosi, gli uomini nascondevano il giubbotto antiproiettile e le pistole, appese ai fermagli alla cintura e pronte all'uso. Gli altri agenti sul furgone disponevano di una potenza di fuoco sufficiente a fronteggiare un reggimento dell'esercito.

King e Michelle trattennero il fiato quando l'agente bussò alla porta. Passarono trenta secondi, poi un minuto. L'uomo bussò di nuovo e chiamò a voce alta. Trascorse un altro minuto. L'agente scomparve dietro un angolo del cottage e dopo pochi istanti ricomparve dal lato opposto. Tornò verso il furgone, parlando apparentemente da solo. King sapeva che stava chiedendo a Parks l'autorizzazione a procedere. L'autorizzazione evidentemente venne concessa, perché le portiere della suburban si spalancarono di colpo, gli uomini si riversarono all'esterno e si lanciarono verso la porta, che venne aperta con una raffica di colpi esplosa dal caposquadra. Sette uomini fecero irruzione attraverso il varco e sparirono all'interno. Sean e Michelle videro altri uomini emergere dal bosco e dirigersi verso il cottage con i fucili puntati e pronti a sparare.

Stavano tutti aspettando con i nervi tesi che colpi d'arma da fuoco annunciassero che il nemico era là dentro, pronto a soccombere tra fiamme di gloria. Ma tutto quello che sentirono fu il fruscio delle foglie nella brezza e l'occasionale cinguettio degli uccelli. Trenta minuti più tardi venne dato il via libera. Michelle e King andarono a unirsi a Parks e agli altri cacciatori.

Nel piccolo cottage c'erano soltanto pochi mobili rustici, un caminetto inutilizzato, pensili con un po' di cibo stantio e un frigorifero praticamente vuoto. L'accesso al bunker era costituito da una porta nel sotterraneo.

Il bunker, parecchie volte più ampio del cottage, pulito e ben illuminato, evidentemente era stato utilizzato di recente. C'erano locali adibiti a magazzino con scaffali vuoti, ma le sagome sullo strato di polvere indicavano la presenza di oggetti fino a poco tempo prima. C'era anche un poligono di tiro che, a giudicare dall'odore, aveva visto attività recente. Quando arrivarono alle celle dei prigionieri, Parks fece un cenno a King e Michelle, che lo seguirono lungo il corridoio fino a una porta socchiusa. Il marshal la spalancò con un piede.

La cella era vuota.

«Sono tutte vuote» brontolò Parks. «Ci è andata male. Però questo posto è stato occupato fino a poco tempo fa e noi lo passeremo al setaccio palmo a palmo.»

Si allontanò a grandi passi per organizzare le squadre dei tecnici che dovevano effettuare i rilievi. King lanciò un'occhiata all'interno della cella e poi passò lentamente il raggio luminoso della torcia su ogni angolo. Sussultò quando, quasi in risposta, vide scintillare qualcosa. Entrò, guardò sotto la brandina e poi chiese a Michelle: «Hai un fazzoletto?».

La ragazza gliene porse uno, che utilizzò per afferrare il piccolo oggetto. Era un orecchino.

Michelle lo esaminò. «È di Joan.»

King la guardò con scetticismo. «Come fai a dirlo? È un orecchino come tanti altri.»

«Per un uomo, sì. Ma le donne notano i vestiti, i capelli, i gioielli, le unghie, le scarpe... praticamente tutto quello che ha addosso un'altra donna. Gli uomini notano solo tette e culo, in genere in questo ordine, e qualche volta il colore dei capelli. E di Joan, li portava l'ultima volta che l'ho vista.»

«Quindi è stata qui.»

«Ma adesso non c'è, il che significa che esistono buone possibilità che sia ancora viva» commentò Michelle.

«Potrebbe averlo fatto cadere di proposito.»

«Certo. Per farci sapere che è stata qui.»

Mentre Michelle andava a consegnare l'orecchino a Parks, King passò nella cella successiva, che esaminò alla luce della torcia. La ispezionò metro per metro, ma non vide nulla di rilevante. Si chinò a guardare sotto la brandina e, mentre si rialzava, sbatté la testa sull'intelaiatura. Si alzò in piedi, si sfregò il capo e si accorse che aveva spostato il sottile materasso. Si piegò in avanti per risistemarlo, prima che qualcuno lo rimproverasse per avere alterato la scena di un delitto.

Fu in quel momento che la vide. L'iscrizione sul muro, proprio nel punto in cui il materasso l'aveva coperta. Si piegò ancora di più e puntò la luce sulla scritta. Doveva essere stato un lavoro durissimo inciderla nel cemento, probabilmente con un'unghia.

Mentre la leggeva, sentì scattare qualcosa nella testa e riportò la mente al fuoristrada che si dirigeva verso il cottage. Qualcosa che Kate aveva detto a lui e a Michelle cominciava finalmente ad avere senso. Se era vero, tutti si erano sbagliati di grosso.

«Cosa stai facendo?»

Sean si voltò e vide Michelle che lo guardava.

«Faccio Sherlock Holmes, però senza riuscirci» rispose, impacciato. Guardò al di sopra delle spalle della ragazza. «Come va là fuori?»

«Le squadre dei tecnici si stanno preparando a entrare. Non credo che apprezzeranno la nostra presenza.»

«Sono d'accordo. Perché non vai a dire a Parks che noi torniamo a Wrightsburg? Potrà trovarci a casa mia.»

Michelle si guardò intorno. «Speravo davvero che la giornata di oggi avrebbe risposto a tutte le nostre domande. Invece adesso ne abbiamo di nuove.»

Dopo che Michelle se ne fu andata, King si voltò di nuovo verso il muro e lesse un'altra volta l'iscrizione, memorizzandola. Si chiese se fosse il caso di informare anche gli altri, ma decise di lasciare che la scoprissero da soli, se mai ci sarebbero riusciti. Se aveva ragione lui, quel nuovo elemento cambiava tutto.

 

62

 

Durante il viaggio di ritorno a Wrightsburg, King mantenne un silenzio cupo, tanto che Michelle alla fine rinunciò a qualsiasi tentativo di scuoterlo dal malumore. Lo scaricò davanti a casa.

«Resto al motel per un po'» gli disse. «Devo controllare alcune cose. E immagino che dovrò anche telefonare al Servizio. Dopo tutto, lavoro ancora per loro.»

«Bene, buona idea» mormorò King assente, distogliendo lo sguardo.

«Se non vuoi dirmi i tuoi pensieri per un centesimo, sono disposta ad arrivare fino a cinque.» Michelle sorrise e gli toccò leggermente un braccio. «Dài, Sean, smettila.»

«In questo momento non sono sicuro che i miei pensieri valgano tanto.»

«Hai visto qualcosa, laggiù, vero?»

«Non adesso, Michelle. Ho bisogno di riflettere su alcune cose.»

«Okay, la tua casa, le tue regole» disse in tono secco la ragazza, chiaramente ferita dal fatto che King non fosse interessato alla sua collaborazione.

«Aspetta un momento. C'è qualcosa che puoi fare per me: hai ancora accesso al database del Servizio segreto?»

«Credo di sì. Un amico ha rallentato la trafila burocratica della mia sospensione. In effetti, dopo che mi hanno concesso le ferie, non so neppure bene quale sia il mio status. Ma posso scoprirlo piuttosto in fretta. Il mio portatile è al motel: entro nel sistema e controllo. Cosa hai bisogno di sapere?» Quando King glielo disse, sembrò molto sorpresa. «E questo cosa c'entra?»

«Forse niente, forse tutto.»

«Be', dubito che sia nel database del Servizio.»

«Allora prova da qualche altra parte. Sei un detective piuttosto in gamba.»

«Non credo che tu lo pensi davvero. Finora tutte le mie grandi teorie non hanno proprio retto.»

«Se mi trovi quella risposta, non ci sarà più alcun dubbio nella mia mente.»

Michelle salì a bordo del fuoristrada. «A proposito, hai una pistola?»

King scosse la testa. «Non me l'hanno mai restituita.»

La ragazza estrasse la pistola dalla fondina e gliela tese. «Ecco qua. Se fossi in te, dormirei con questa vicino.»

«E tu?»

«Gli agenti del Servizio segreto ne hanno sempre una di scorta. Lo sai.»

Michelle si era allontanata da venti minuti quando King salì sulla Lexus e andò al suo ufficio. Per anni ci era andato almeno cinque giorni alla settimana, finché Howard Jennings non era stato trovato cadavere sulla moquette. Adesso lo studio gli diede la sensazione di una terra sconosciuta in cui si avventurava per la prima volta. I locali erano freddi e bui. Accese luci e riscaldamento e guardò l'ambiente intorno a sé. Era la misura di come e quanto fosse riuscito a risalire dall'abisso creato dall'omicidio Ritter. E tuttavia, mentre ammirava il raffinato quadro a olio sulla parete, passava la mano sugli eleganti pannelli di mogano, assaporava l'ordine e la calma che rispecchiavano quelli della sua bella casa, non riuscì a provare l'abituale senso di soddisfazione e di pace. Sentì piuttosto un senso di vuoto. Cosa gli aveva detto Michelle? Che la sua casa era fredda, addirittura una finzione? Che forse una volta non gli sarebbe piaciuta così? Era davvero cambiato tanto? Be', si disse, ci era stato costretto. Devi affrontare le curve che la vita ti presenta e o ti adatti, oppure rimani fermo sul bordo della strada a piangerti addosso.

Andò nella stanzetta al piano inferiore che ospitava la sua biblioteca legale. Anche se gran parte del materiale di ricerca era ormai disponibile su CD, a King piaceva ancora vedere libri veri sugli scaffali. Si fermò davanti all'annuario Martindale Hubbell, che elencava tutti gli avvocati abilitati del paese, divisi per Stati. Prese il volume della California che, sfortunatamente, corrispondeva all'ordine professionale più numeroso degli Stati Uniti. Non trovò quello che stava cercando, ma poi, all'improvviso, capì perché. La sua edizione del Martindale era la più recente. Forse il nome che stava cercando era riportato in un'edizione più vecchia. Aveva in mente una data particolare, ma dove poteva trovare quell'elenco? Si diede una risposta nel giro di un secondo.

Trentacinque minuti dopo entrava nel parcheggio riservato ai visitatori della solenne facoltà di legge dell'Università della Virginia, situata nel campus nord. Andò direttamente alla biblioteca legale, dove trovò l'addetta con cui aveva lavorato in passato, quando aveva avuto bisogno di materiale di ricerca che andava al di là dello spazio e delle risorse economiche di un piccolo studio. Quando le spiegò cosa gli serviva, la donna annuì. «Oh, sì, è tutto su dischetto, però adesso siamo abbonati al loro servizio on line. Lascia che ti iscriva. Se per te va bene, posso addebitare l'importo sul tuo conto, Sean.»

«Va benissimo. Grazie.»

La bibliotecaria lo guidò verso una saletta al pianterreno. Passarono accanto a studenti che, seduti con un portatile davanti, imparavano coscienziosamente che la legge può essere in parti uguali esaltante e stupefacente.

«Certe volte vorrei essere ancora uno studente» disse King.

«Non sei il primo a dirlo. Se a fare lo studente di legge si guadagnasse qualcosa, qui ne avremmo un mucchio in pianta stabile.»

La bibliotecaria lo registrò nel sistema e si allontanò. Sean si sedette davanti al terminale e si mise al lavoro. La velocità del computer e la semplicità del servizio on line resero la sua ricerca molto più facile di quella che avrebbe potuto effettuare manualmente nel suo studio e non passò molto tempo prima di trovare quello che stava cercando: il nome di un certo avvocato in California. Dopo diversi tentativi andati a vuoto, adesso era quasi sicuro di aver trovato ciò che voleva. Il legale in questione era deceduto, ragione per cui non era riportato nell'annuario aggiornato di King. Ma nell'edizione del 1974 il suo nome era bene in evidenza.

Adesso l'unico problema era verificare se si trattava davvero dell'uomo che stava cercando, ma la risposta non poteva arrivare da quel database. Per fortuna, Sean sapeva dove trovare l'eventuale conferma. Telefonò a Donald Holmgren, il difensore d'ufficio ora in pensione che aveva inizialmente difeso Arnold Ramsey. Quando gli disse il nome dello studio e quello dell'avvocato, e Holmgren trattenne il fiato per la sorpresa, avrebbe voluto liberare un grido di vittoria.

«Sono sicuro di sì» dichiarò Holmgren. «È lui che ha gestito la difesa di Ramsey. È lui che è riuscito a concludere quell'accordo con l'ufficio del procuratore distrettuale.»

King chiuse la comunicazione sul cellulare. Molte cose adesso cominciavano ad avere senso. Ma c'erano ancora molte zone in cui brancolava nel buio.

Se solo Michelle si fosse fatta viva con la risposta che stava aspettando... La risposta che avrebbe combaciato con l'iscrizione sul muro di quella cella. Se fosse andata così, forse sarebbe effettivamente riuscito a scoprire la verità. E se davvero aveva ragione? Quel pensiero gli diede i brividi, perché la conclusione logica era che, a un certo punto, avrebbero tentato di uccidere lui.

 

63

 

Michelle arrivò al motel e guardò la scatola sul sedile posteriore che conteneva il materiale su Bob Scott recuperato al Cedars. La portò con sé in camera, pensando di riesaminare il tutto nel caso a Joan fosse sfuggito qualcosa. Mentre dava un'occhiata al materiale, scoprì che nella scatola c'erano anche gli appunti di Joan.

Faceva di nuovo freddo, così ammucchiò ramoscelli e pezzi di legna nel caminetto e li accese con fiammiferi e fogli di giornale arrotolati. Ordinò tè caldo e qualcosa da mangiare alla cucina del motel. Dopo ciò che era successo a Joan, Michelle tenne costantemente d'occhio il cameriere, con la mano pronta sulla pistola, finché non se ne andò. La camera era ampia, arredata con uno stile aggraziato e al tempo stesso sontuoso che avrebbe fatto sorridere con approvazione Thomas Jefferson. L'allegria del fuoco metteva ancora più in risalto l'atmosfera serena, calda e accogliente. Comunque, nonostante le attrattive della camera, avrebbe dovuto lasciare il motel già da tempo a causa del costo proibitivo, se il Servizio non si fosse offerto di pagarle vitto e alloggio, almeno per qualche giorno. Era sicura che si aspettassero un sostanzioso quid pro quo, e cioè una ragionevole soluzione a quel caso intricato ed esasperante. E indubbiamente il Servizio era consapevole che lei, insieme a King, aveva collaborato a sviluppare la maggior parte delle piste risultate più promettenti. In ogni caso, non era così ingenua da non rendersi conto che per il Servizio pagarle i conti era un ottimo sistema per tenerla d'occhio.

Si sedette a gambe incrociate sul pavimento, collegò il computer alla linea telefonica dall'aria nuovissima sulla parete dietro la scrivania stile diciottesimo secolo e si mise al lavoro sulla strana richiesta di King. Come aveva previsto, il database del Servizio segreto non poteva fornire la risposta, così cominciò a telefonare a diversi colleghi. Al quinto tentativo trovò qualcuno in grado di aiutarla. Michelle comunicò al suo interlocutore le informazioni che King aveva dato a lei.

«Accidenti, sì» confermò l'agente. «Lo so perché mio cugino era nello stesso, maledetto campo di prigionia. Quando ne è uscito, era uno scheletro.»

Michelle lo ringraziò e riattaccò. Chiamò immediatamente King, che nel frattempo era rientrato a casa.

«Okay» disse la ragazza, trattenendo a malapena la soddisfazione. «Per prima cosa devi consacrarmi come la più brillante detective del mondo dopo Jane Marple.»

«Miss Marple? Pensavo che avresti detto Sherlock Holmes o Hercule Poirot» ribatté King.

«Per essere uomini non erano male, ma Jane è unica.»

«Okay, considerati consacrata, furbacchiona. Che cos'hai trovato?»

«Avevi ragione. Il nome che mi hai dato era quello del villaggio vietnamita dove era prigioniero e dal quale è poi scappato. Adesso vuoi dirmi cosa sta succedendo? Dove hai trovato quel nome?»

King esitò, poi rispose: «Era inciso sulla parete della cella nel bunker in Tennessee».

«Mio Dio, Sean, significa quello che penso?»

«Dopo il nome c'era inciso anche il numero romano due. Direi che ha senso. Era il suo secondo campo di prigionia, probabilmente lo considerava in questo modo. Prima il Vietnam, poi il Tennessee.»

«Quindi Bob Scott è stato prigioniero in quella cella e ha lasciato quell'iscrizione per comunicarlo?»

«Forse. Ma non dimenticare che potrebbe essere stata fatta per depistarci, un indizio fabbricato perché lo trovassimo.»

«Ma è un indizio talmente oscuro...»

«È vero. E poi c'è l'altra cosa.»

«Cosa?» chiese subito Michelle.

«Il biglietto "Sir Kingman" appuntato sul cadavere di Susan Whitehead.»

«Tu non credi che l'abbia scritto Scott? Perché?»

«Per diverse ragioni, ma non sono ancora sicuro.»

«Ma supponendo che Scott non sia coinvolto, chi diavolo c'è, là fuori?»

«Ci sto lavorando sopra.»

«Che cosa hai fatto finora?»

«Qualche ricerca legale nella biblioteca dell'Università della Virginia.»

«Hai trovato quello che cercavi?»

«Sì.»

«Ti dispiacerebbe informarmi?»

«Non ancora. Devo rifletterci sopra ancora un po'. Ma grazie per aver controllato quell'informazione. Ti richiamo presto... Miss Marple.» King chiuse la comunicazione e Michelle riabbassò il ricevitore, non molto contenta che Sean avesse rifiutato di nuovo di aprirsi con lei.

«Tu dai una mano a uno e ti aspetti che si confidi con te, invece nooo!» si lamentò nella stanza vuota.

Mise dell'altra legna sul fuoco e riprese a frugare tra le pratiche e gli appunti di Joan.

Si sentiva un po' a disagio nel leggere i commenti personali di Joan, considerando che poteva essere morta, però doveva ammettere che quegli appunti erano precisi e scrupolosi. Esaminandoli, cominciò ad apprezzare sempre di più l'abilità investigativa e la professionalità della donna. Ripensò a ciò che Sean le aveva detto a proposito del biglietto ricevuto da Joan la mattina dell'omicidio di Ritter. Chissà che sensazione di colpa l'aveva oppressa per tutti quegli anni, vedendo distruggere l'uomo che amava, mentre invece la sua carriera decollava come un razzo. D'altro canto, quanto poteva averlo amato, visto che non aveva esitato a privilegiare la propria carriera rispetto ai sentimenti che provava per King? E Sean? Come si era sentito lui?

E, comunque, cosa c'è negli uomini che non funziona? Hanno un gene dominante che li costringe a comportarsi nobilmente quando soffrono, sia pure da stupidi, per una donna che approfitta di loro? Certo, anche una donna può struggersi altrettanto disperatamente per un uomo. E fin troppo spesso le donne perdono la ragione per i ragazzacci che spezzano loro il cuore e, a volte, anche la testa. Però una donna di solito cerca di limitare le perdite e va avanti. Ma gli uomini no. Loro devono continuare a sbattere la loro stupida testa contro il muro, per quanto freddo sia il cuore nascosto sotto la camicetta e le tette dell'amata. Era davvero frustrante che un uomo come King si facesse circuire da una donna come Joan.

A un tratto Michelle si sorprese per i suoi stessi pensieri e si domandò perché poi le importasse tanto. Lei e King stavano lavorando insieme su un caso, ecco tutto. E Sean non rappresentava certo la perfezione. Sì, era intelligente, raffinato, attraente e dotato di un pungente senso dell'umorismo. Ma aveva anche dieci anni più di lei. Ed era lunatico, distaccato, a volte maleducato e altre condiscendente. E poi era così maledettamente ordinato! Pensare che lei aveva ripulito il fuoristrada per fargli piacere...

Arrossì di colpo a quella franca ammissione e riportò rapidamente l'attenzione sui documenti davanti a sé. Esaminò il mandato emesso nei confronti di Bob Scott che aveva trovato Joan e che era l'unica ragione per cui avevano scoperto il cottage e il bunker vuoto. Tuttavia, in base a quello che le aveva appena detto King, la conclusione che dietro l'intera storia ci fosse Scott adesso sembrava molto più debole.

Il cottage, però, era suo, e il mandato d'arresto per violazione alla normativa sulle armi era stato emesso a suo nome. Michelle studiò con maggiore attenzione il documento. Di quale violazione si trattava, in effetti? E perché non erano riusciti a notificare il mandato? Sfortunatamente, i documenti non fornivano le risposte.

Rinunciò frustrata a quelle domande e riprese a vagliare gli appunti di Joan, finché arrivò a un altro nominativo che la spinse a fermarsi. Per lei, il fatto che Joan avesse tracciato una riga su quel nome, eliminandolo evidentemente dai sospetti, non era di per sé conclusivo. Anche se probabilmente non l'avrebbe mai ammesso con nessuno, credeva nelle proprie capacità investigative come King credeva nelle sue.

Pronunciò il nome lentamente, scandendo le due sillabe del cognome: «Doug Denby». Capo dello staff di Ritter. L'appunto di Joan diceva che, dopo la morte di Ritter, la vita di Denby aveva avuto una svolta estremamente positiva grazie a un'eredità in Mississippi. Per questo Joan aveva concluso che non poteva essere il loro uomo. Ma Michelle non ne era così sicura. Erano sufficienti alcune telefonate fatte dai collaboratori di Joan e qualche informazione generica? Joan non era andata a verificare di persona in Mississippi. Non aveva mai posato gli occhi su Doug Denby. Denby stava veramente facendo il gentiluomo di campagna in Mississippi? Non poteva essere invece da qualche altra parte, in attesa di uccidere o rapire la sua prossima vittima? King sosteneva che, durante la campagna elettorale di Ritter, Denby era stato completamente messo in ombra da Sidney Morse, per il quale era arrivato a provare un profondo risentimento. Forse era arrivato a odiare anche Clyde Ritter. Ma che collegamento poteva avere avuto con Arnold Ramsey, se mai c'era stato? O con Kate Ramsey? Denby si era servito della propria ricchezza per orchestrare una specie di campagna della vendetta? Le ricerche di Joan non avevano risposto a quelle domande.

Michelle prese una penna e riscrisse il nome di Denby sotto la cancellatura di Joan. Si domandò se telefonare a King per chiedergli cosa ricordava di quell'uomo. Forse, però, avrebbe fatto meglio a prendere gli appunti, andare a casa sua e costringerlo a lavorarci sopra con lei. Sospirò. Forse aveva soltanto voglia di stargli vicino. Si stava versando un'altra tazza di tè, guardando dalla finestra le nubi che andavano addensandosi e promettevano pioggia, quando il telefono squillò.

Era Parks, per un aggiornamento: «Sono ancora in Tennessee». Non sembrava molto felice.

«Novità?»

«Abbiamo parlato con un po' di gente che abita nei dintorni, ma non è servito a niente. Non conoscono Bob Scott, non l'hanno mai visto eccetera. Accidenti, credo che quasi tutte quelle persone siano loro stesse criminali in fuga. La tenuta appartiene effettivamente a Bob Scott: l'ha acquistata dall'asse ereditario di un vecchio che ci aveva abitato per circa cinque anni, ma che, secondo la famiglia, non sapeva neppure che ci fosse un bunker. Il posto è stato completamente ripulito: nessun indizio, a parte l'orecchino che avete trovato voi due.»

«L'ha trovato Sean, non io.» Michelle esitò e poi aggiunse: «Senti, Sean ha trovato anche qualcos'altro». Gli disse del nome del villaggio vietnamita inciso sulla parete della cella.

Parks si infuriò. «Perché non me l'ha detto quando era là?»

«Non lo so» rispose Michelle, poi pensò alla riservatezza di King anche nei suoi confronti. «Forse in questo momento non si fida di nessuno.»

«E hai avuto conferma che Scott è stato prigioniero di guerra in Vietnam?»

«Sì, ho parlato con un collega che conosceva tutta la storia.»

«Quindi mi stai dicendo che qualcuno è venuto quaggiù, si è impadronito del posto e ha tenuto prigioniero Scott in casa sua?»

«Sean dice che potrebbe essere un trucco studiato per depistarci.»

«Dov'è, adesso, il nostro brillante investigatore?»

«A casa sua. Sta seguendo altre piste. In questo momento non è per niente comunicativo. A quanto pare, vuole stare solo.»

«E chi se ne frega di quello che vuole!» strillò Parks. «Potrebbe anche avere risolto tutto il caso e a noi non dice niente!»

«Senti, Jefferson: Sean sta facendo del suo meglio per arrivare alla verità. È solo che lo fa a modo suo.»

«Be', il suo modo sta cominciando a rompermi le palle.»

«Gli parlerò. Magari più tardi possiamo vederci.»

«Non so per quanto tempo ancora dovrò restare qui. Probabilmente fino a domattina. Tu parla con King e fagli capire l'errore che fa tenendoci fuori. Non voglio venire a sapere che ha qualche altra prova di cui io non sono al corrente. Se succede, lo sbatto in una cella che somiglia molto a quelle che voi due avete visto questa mattina. Capito?»

«Perfettamente.»

Michelle chiuse la comunicazione, staccò dalla presa il cavo telefonico del portatile, lo riavvolse e lo mise nella borsa. Poi si avviò verso il lato opposto della camera per andare a prendere qualcosa nello zaino. Era così preoccupata che lo vide soltanto quando fu troppo tardi. Inciampò e cadde. Mentre si rialzava, guardò il remo con rabbia. Era per metà sotto il letto, insieme a tutte le altre cianfrusaglie scaricate dal fuoristrada. Lo spazio sotto il letto era talmente stipato che gli oggetti continuavano a riversarsi fuori, trasformando la camera in una pista a ostacoli. Era la terza volta che inciampava. Decise di fare qualcosa.

Cominciò la sua guerra al disordine, ignara che l'intera conversazione con Jefferson Parks era stata intercettata da un minuscolo sistema di circuiti. Nell'alloggiamento delle linee telefoniche si nascondeva un altro dispositivo, installato molto di recente e del quale i proprietari del motel non sapevano nulla: un raffinatissimo congegno di sorveglianza senza fili, così straordinariamente sensibile da captare non solo le conversazioni che si svolgevano nella stanza e ciò che diceva Michelle al telefono, ma anche tutto quello che veniva detto dalla persona all'altro capo della linea.

A meno di un chilometro dal motel, un furgone insonorizzato era fermo sul ciglio della strada. Al suo interno, l'uomo della Buick ascoltò la conversazione per la terza volta e poi fermò il nastro. Afferrò il telefono, formò il numero, parlò per alcuni minuti e terminò dicendo: «Non hai idea di quanto sia contrariato».

Queste parole provocarono un brivido lungo la spina dorsale del suo interlocutore.

«Fallo» disse l'uomo della Buick. «Fallo questa notte.»

Riattaccò e guardò in direzione del motel. Finalmente Michelle Maxwell ce l'aveva fatta ad arrivare in cima alla lista. Si congratulò silenziosamente con lei.

 

64

 

Con tutto quello che stava succedendo, in qualche modo King aveva trovato anche il tempo per fissare un appuntamento con una società specializzata in sistemi di sicurezza che aveva sede a Lynchburg. Da una finestra sulla facciata guardò il furgone con la scritta "A-1 Security" fermarsi davanti a casa.

Accolse l'addetto alle vendite e gli spiegò quello che voleva. L'uomo si guardò intorno e poi osservò King. «Lei ha un viso familiare. Non è quello che ha trovato un cadavere?»

«Esattamente. Sarà d'accordo con me sul fatto che abbia bisogno di un sistema di sicurezza più della maggior parte della gente.»

«Okay. Ma, tanto per intenderci, la nostra garanzia non copre cose del genere. Cioè, se salta fuori un altro cadavere, lei non ha diritto ad alcun risarcimento o roba simile. Rientrerebbe negli eventi catastrofici, chiaro?»

«Chiaro.»

Si misero d'accordo sul da farsi.

«Quando potete cominciare?» chiese King.

«Ora come ora siamo un po' indietro con il lavoro, ma se qualcuno annulla un ordine possiamo farla salire in elenco. Le telefonerò.»

Sean firmò i vari moduli e strinse la mano al venditore, che se ne andò.

Quando scese la sera, pensò di telefonare a Michelle per chiederle di raggiungerlo. L'aveva lasciata all'oscuro abbastanza a lungo e lei se l'era presa. Ma era quello il suo modo di lavorare: si teneva sempre molto abbottonato, in particolare quando non era sicuro della risposta. Be', adesso si sentiva più sicuro.

Chiamò Kate Ramsey a Richmond, ma rispose Sharon, la compagna d'appartamento. Kate non si era ancora fatta viva.

«Non si muova da casa. Se scopriamo dov'è glielo farò sapere subito. Lei faccia altrettanto» le disse.

Riattaccò e osservò il lago attraverso la grande finestra. Di solito, quando aveva dei problemi, usciva in barca e rifletteva, ma adesso faceva troppo freddo e c'era troppo vento. Accese il caminetto a gas, ci si sedette davanti e mangiò qualcosa. Poi, quando decise di telefonare a Michelle, pensò che ormai si era fatto troppo tardi.

Ripensò al rapimento di John Bruno. A questo punto gli sembrava chiaro che fosse stato sequestrato perché in apparenza aveva distrutto la vita di Arnold Ramsey con una falsa accusa d'omicidio. Accusa che era stata fatta cadere solo in seguito all'intervento di un avvocato di cui ora lui conosceva l'identità. Desiderava davvero condividere quelle informazioni con Michelle e lanciò un'occhiata al telefono, pensando che forse poteva chiamarla lo stesso, nonostante l'ora. Decise che poteva aspettare. Poi il pensiero passò a ciò che Kate aveva affermato di avere sentito. O pensato di avere sentito. Il nome di Thornton Jorst, presumibilmente pronunciato dall'uomo del mistero davanti a suo padre. Ma King era convinto che ciò che l'uomo in realtà aveva detto non era Thornton Jorst, ma "Trojan horse", cavallo di Troia.

E c'era un'altra cosa che Kate aveva detto e che lo inquietava. Secondo la ragazza, Regina le aveva raccontato che un funzionario di polizia era stato ucciso durante una manifestazione contro la guerra, suggerendo che l'incidente aveva danneggiato la carriera universitaria di Arnold Ramsey. Ma Kate aveva detto anche che l'università di Berkeley aveva consentito a suo padre di conseguire la libera docenza perché in pratica se l'era già guadagnata. Kate doveva sapere che lui e Michelle potevano scoprire facilmente che l'anno della docenza di Ramsey era il 1974 e quindi concludere, altrettanto facilmente, che quella manifestazione di protesta non poteva essere stata contro la guerra nel Vietnam. Perché Kate l'aveva fatto? Non gli venne in mente alcuna risposta.

Guardò l'orologio e rimase sorpreso nel vedere che era mezzanotte passata. Dopo essersi assicurato che tutte le porte e le finestre fossero ben chiuse, salì al piano di sopra, portando con sé la pistola che gli aveva dato Michelle. Chiuse a chiave la porta della camera da letto e, per maggiore sicurezza, spinse il cassettone contro la porta. Si assicurò che l'arma fosse carica e che ci fosse il colpo in canna. Si spogliò e andò a letto. Con la pistola sul comodino di fianco a lui, si addormentò in fretta.

 

65

 

Erano le due di notte. La persona alla finestra alzò l'arma, mirò alla grossa sagoma sul letto e fece fuoco attraverso il vetro, che esplose in un tintinnio di frammenti. I proiettili dilaniarono il bersaglio, facendo volare nell'aria le piume della trapunta.

Svegliata di colpo dagli spari, Michelle cadde dal divano e finì sul pavimento. Si era addormentata mentre esaminava gli appunti di Joan, ma era già completamente sveglia e all'erta. Rendendosi conto che qualcuno aveva appena tentato di ucciderla, estrasse la pistola e fece fuoco a sua volta. Sentì il suono di passi che si allontanavano di corsa e strisciò verso la finestra, ascoltando con attenzione. Sbirciò cautamente al di sopra del davanzale. Sentiva ancora i passi del fuggitivo, che sembrava respirare affannosamente. Alle sue orecchie esperte quei passi suonavano strani, come se chi correva fosse ferito o in qualche modo impedito. Quale che fosse la causa, non erano passi normali. Facevano pensare piuttosto a dei balzi irregolari e Michelle ipotizzò di avere colpito l'aspirante assassino, oppure che lo sconosciuto fosse stato ferito in precedenza, prima di tentare di ucciderla quella sera. Poteva trattarsi dell'uomo al quale lei aveva sparato a bordo del fuoristrada, quello che aveva fatto di tutto per spezzarle il collo? Forse l'uomo che si faceva chiamare Simmons?

Sentì avviare il motore di un veicolo, ma non tentò neppure di correre al suo fuoristrada per mettersi all'inseguimento. Non aveva idea se là fuori, in attesa, ci fosse qualcun altro. Era già caduta in un'imboscata del genere con King e non aveva alcun desiderio di ripetere l'errore.

Andò accanto al letto e abbassò lo sguardo sul disastro. Nel pomeriggio aveva fatto un sonnellino e le coperte e i grossi cuscini formavano ancora un unico ammasso. L'assassino doveva aver pensato che fosse lei, addormentata.

Ma perché cercare di ucciderla adesso? Lei e King si stavano avvicinando troppo? Personalmente non aveva fatto poi granché. Sean di sicuro aveva scoperto più di...

Si immobilizzò di colpo. King! Afferrò il ricevitore e formò il numero. Il telefono suonò e suonò, ma non ci fu risposta. Doveva chiamare la polizia? Parks? Era possibile che King stesse soltanto dormendo profondamente. No, l'istinto le suggeriva qualcos'altro. Uscì e corse verso il fuoristrada.

 

Fu l'allarme a svegliarlo. Confuso per un attimo, scattò a sedere, subito vigile. C'era fumo dappertutto. King saltò giù dal letto e si gettò sul pavimento, cercando di respirare. Riuscì ad arrivare in bagno, inzuppò un asciugamano d'acqua e si coprì la faccia. Tornò in camera carponi, puntellò la schiena contro la parete e con le gambe scostò il cassettone dalla porta. Sfiorò il pomolo per assicurarsi che non scottasse e poi aprì la porta con cautela.

Il corridoio era invaso dal fumo e l'allarme antincendio continuava a strillare. Sfortunatamente non era collegato a un'unità centrale di monitoraggio e l'unica caserma dei vigili del fuoco volontari era distante parecchi chilometri. Inoltre la casa si trovava in una posizione così isolata che nessuno si sarebbe accorto che stava andando a fuoco. Sempre carponi, Sean tornò in camera da letto con l'intenzione di arrivare al telefono, ma il fumo era talmente denso che perse l'orientamento e non si azzardò ad avventurarsi oltre. Scivolò di nuovo nel corridoio e poi sul ballatoio. Vide fiamme e scintille al piano di sotto e pregò che la scala fosse praticabile. In caso contrario avrebbe dovuto buttarsi, probabilmente in un inferno, e l'idea non era molto attraente.

Sentì dei rumori provenire dal basso. Stava tossendo a causa del fumo inalato e voleva disperatamente uscire dalla casa, ma era comunque consapevole che poteva trattarsi di una trappola. Strinse con forza la pistola e gridò: «Chi c'è laggiù? Vi avverto che sono armato».

Non ci fu risposta, cosa che alimentò ancora di più i suoi sospetti finché, ancora disteso sul ballatoio, non guardò fuori attraverso la grande vetrata. Vide le luci rosse lampeggianti nello spiazzo davanti a casa e sentì le sirene di altri mezzi dei vigili del fuoco in avvicinamento. Okay, dopo tutto i soccorsi erano arrivati. Raggiunse la scala e guardò in basso. Attraverso il fumo riuscì a distinguere i pompieri, con i caschi, i giacconi, le bombole sulla schiena e le maschere che coprivano il volto.

«Sono qua!» urlò. «Quassù!»

«Riesce a scendere?» gridò uno dei pompieri.

«No, non credo. Qui c'è una barriera di fumo.»

«Okay, resti lì: veniamo su noi. Rimanga disteso a terra.

Stiamo portando dentro gli idranti. Sta bruciando tutto.»

Sean sentì il rumore del getto degli estintori mentre i vigili del fuoco salivano i gradini a passo di carica. Provava un senso di nausea ed era quasi accecato dal fumo. Si sentì sollevare e trasportare velocemente giù per la scala. Un minuto dopo si ritrovò all'esterno e percepì la presenza di persone che lo guardavano dall'alto.

«Si sente bene?»

«Dategli un po' di ossigeno» disse un altro pompiere. «Ha respirato una tonnellata d'ossido di carbonio.»

King sentì che gli veniva messa una maschera per l'ossigeno in faccia e poi ebbe la sensazione di essere sollevato e caricato a bordo di un'ambulanza. Per un istante gli sembrò di sentire la voce di Michelle che lo chiamava. E poi tutto diventò nero.

Le sirene, le luci lampeggianti, il crepitio delle radio e gli altri "effetti sonori" cessarono immediatamente non appena uno dei vigili del fuoco spense con una mano l'interruttore principale sul quadro dei comandi e con l'altra tolse a King la pistola. Tutto si fece di nuovo silenzioso. Il pompiere si voltò e rientrò in casa, dove il fumo cominciava già a diradarsi. Era stato un incendio controllato, i cui elementi erano stati creati artificialmente con grande attenzione. L'uomo scese nel seminterrato, attivò l'interruttore del piccolo dispositivo sistemato accanto alle tubature del gas e uscì dall'edificio. Salì sul retro del furgone, che si allontanò immediatamente. Il veicolo raggiunse la strada principale e accelerò, diretto a sud. Due minuti dopo, nel seminterrato di Sean, il piccolo dispositivo esplose, facendo scoppiare le tubature del gas. La deflagrazione ridusse letteralmente in pezzi la bella casa di King.

Il vigile del fuoco si tolse maschera e casco e si ripulì il viso.

L'uomo della Buick abbassò lo sguardo su un King privo di sensi. L'"ossigeno" che gli era stato somministrato comprendeva anche un forte sedativo.

«Che piacere rivederti, agente King. Ho aspettato a lungo questo momento.»

Il furgone accelerò nel buio.

 

66

 

Michelle aveva appena svoltato nel lungo viale che portava alla casa di King, quando l'esplosione scosse la notte. Accelerò al massimo, alzando ghiaia e terriccio lungo tutta la salita. Frenò di colpo, facendo slittare il fuoristrada, quando assi, vetri e altri detriti le bloccarono la strada. Saltò fuori dal veicolo, digitando contemporaneamente il 911. Urlando, spiegò all'operatrice cos'era successo e le chiese di mandare subito tutti i mezzi disponibili.

Cominciò a correre tra le macerie, cercando di evitare fiamme e fumo, gridando il suo nome. «Sean! Sean!»

Tornò al fuoristrada, afferrò una coperta, si coprì e si precipitò nella casa attraverso il punto in cui una volta c'era stata la porta d'ingresso. Il muro di fumo che si trovò davanti era impenetrabile e Michelle, barcollando semisoffocata, tornò fuori, dove si lasciò cadere sulle ginocchia. Prese alcuni profondi respiri d'aria fresca e poi ritentò. Questa volta entrò attraverso una breccia in ciò che era rimasto dell'edificio. Una volta dentro, avanzò strisciando, gridando il nome di King ogni pochi secondi. Si diresse verso la scala, pensando che lui potesse essere in camera da letto, solo che la scala non c'era più. Con i polmoni in fiamme, fu costretta a tornare di nuovo fuori per prendere aria.

Un altro boato fece tremare la struttura. Michelle saltò giù dalla veranda sulla facciata pochi secondi prima che il porticato crollasse. La forza traumatica della seconda esplosione la scagliò in aria. L'atterraggio fu tanto duro da toglierle il fiato. Sentì oggetti e frammenti di ogni tipo colpire con forza il terreno intorno a lei, come il fuoco di un mortaio. Rimase a terra nella polvere, con un taglio in testa, i polmoni che annegavano nelle esalazioni letali, le gambe e le braccia contuse e ammaccate. Poi sentì sirene dappertutto e rumori di pesanti attrezzature che la circondavano. Un uomo dall'abbigliamento ingombrante le si inginocchiò accanto, le diede l'ossigeno e le domandò se stava bene.

Non riuscì a dire niente, mentre un numero sempre maggiore di mezzi ingombrava il viale d'accesso e squadre di vigili volontari attaccavano l'inferno di fuoco. Mentre era lì, distesa, ciò che restava della casa di Sean King collassò su se stesso. Non rimase in piedi che il camino in pietra. Fu con quell'immagine nella mente che Michelle perse i sensi.

 

Al risveglio, impiegò qualche minuto per capire che si trovava in un letto d'ospedale. Si vide comparire accanto un uomo con una tazza di caffè in mano e un'espressione di sollievo in viso.

«Accidenti, per poco non ti perdevamo» disse Jefferson Parks. «I pompieri hanno detto che a quindici centimetri dalla tua testa c'era una putrella d'acciaio di cinquecento chili, volata via dalla casa.»

Michelle tentò di mettersi a sedere, ma Parks le mise una mano sulla spalla e la costrinse a restare distesa.

«Vuoi stare tranquilla? Te la sei vista brutta. Non è che dopo una cosa del genere ti puoi alzare e andartene via a passo di valzer.»

La ragazza si guardò intorno, frenetica. «Sean. Dov'è Sean?» Parks non rispose subito e Michelle sentì gli occhi riempirsi di lacrime. «Per favore, Jefferson, per favore, non dirmi...» Le si spezzò la voce.

«Non posso dirti niente perché non so niente. Nessuno sa niente. Non hanno trovato cadaveri. Né alcuna indicazione che Sean fosse là dentro. Ma non hanno ancora finito i controlli. E... be', è stato un gran brutto incendio, con anche delle esplosioni di gas. Quello che sto cercando di dirti è che potrebbe non esserci molto da trovare.»

«L'ho chiamato a casa ieri sera e non ha risposto. Per cui forse era fuori.»

«O forse la casa era già esplosa.»

«No, ho sentito l'esplosione mentre stavo andando da lui.»

Parks accostò una sedia al letto e si mise a sedere. «Okay, raccontami esattamente cos'è successo.»

Michelle raccontò, con tutti i particolari che riuscì a ricordare. E poi, improvvisamente, rammentò anche cos'altro era successo, un episodio che era stato spinto in fondo alla mente da quanto era accaduto a casa di King.

«Ieri sera qualcuno ha cercato di uccidermi al motel, subito prima che decidessi di andare da Sean. Hanno sparato al letto attraverso la finestra. Per fortuna mi ero addormentata sul divano.»

Parks si fece rosso in viso. «E perché diavolo non mi hai chiamato, ieri sera? No, certo, hai preferito correre dentro un edificio che stava saltando per aria. Non è che hai un desiderio di morte?»

Michelle si mise a sedere e sistemò il lenzuolo. La testa le doleva e si accorse per la prima volta di avere le braccia bendate.

«Sono rimasta ustionata?» chiese con fatica.

«No. Solo tagli e contusioni, niente che non possa guarire. Per quanto riguarda la testa, non so. Probabilmente continuerai a fare stupidaggini finché la tua fortuna non finirà e perderai anche quella.»

«Volevo solo essere sicura che Sean stesse bene. Ho pensato che, se avevano tentato di uccidere me, avrebbero tentato anche con lui. E avevo ragione. Quell'esplosione non è stata un incidente, vero?»

«No. Hanno trovato il dispositivo che l'ha provocata. Dicono che è piuttosto sofisticato. Era nel seminterrato, vicino alle tubature del gas. Ha fatto saltare la casa fino al cielo.»

«Ma perché? Specialmente se Sean non c'era neppure?»

«Vorrei poterti rispondere.»

«Hai messo della gente a cercarlo?»

«Tutti quelli che possiamo e in tutti i posti immaginabili. Sono impegnati l'FBI, il Marshal Service, il Servizio segreto, la polizia della Virginia, i locali, ma non è ancora saltato fuori niente.»

«Tutto qui? Nessun indizio su Joan? Non c'è altro?»

«No» rispose Parks, scoraggiato. «Niente.»

«Be', io adesso esco da qui e mi metto al lavoro.» Fece di nuovo per alzarsi.

«Quello che farai, è restartene a letto e cercare di riposarti.»

«Mi stai chiedendo l'impossibile!» esclamò Michelle con rabbia.

«Ti sto solo chiedendo il ragionevole. Se te ne vai da qui tutta ammaccata e disorientata, magari hai un malore sul tuo fuoristrada e finisci con l'ammazzarti, insieme a qualcun altro... Be', non mi pare una cosa ben fatta. E ricordati, questo è il tuo secondo passaggio in ospedale nel giro di pochi giorni. Il terzo potrebbe essere all'obitorio.»

Michelle sembrò sul punto di esplodere di nuovo, ma poi tornò a distendersi. «Okay, per il momento hai vinto. Ma nell'attimo stesso in cui succede qualcosa, chiamami. Se non lo farai, te la farò pagare. E non sarà una cosa simpatica.»

Parks alzò le mani in un gesto scherzoso di protesta. «Okay, okay, non voglio farmi altri nemici, ne ho già abbastanza.» Arrivato alla porta, si voltò. «Non voglio darti false speranze. Le probabilità di rivedere Sean King sono piuttosto scarse. Ma finché c'è una possibilità io non dormirò.»

Michelle abbozzò un sorriso. «Okay, grazie.»

Cinque minuti dopo che Parks se ne fu andato, si vestì in fretta, evitò le infermiere di turno e scappò dall'ospedale da un'uscita secondaria.

 

67

 

King si risvegliò nel buio totale. Faceva anche freddo, ovunque fosse, anche se aveva sospetti sempre più forti su dove si trovasse. Respirò a fondo e cercò di mettersi a sedere. Era come aveva temuto: non poteva. Era stato immobilizzato. Con legacci di pelle, a giudicare dalla sensazione tattile. Girò la testa, lasciando che gli occhi si adattassero all'oscurità, ma non riuscì a distinguere nulla. Poteva anche galleggiare in mezzo all'oceano, per quello che ne sapeva. Si irrigidì, sentendo una sorta di mormorio; i suoni erano così deboli che non riuscì a capire se fossero umani. Poi udì dei passi che si avvicinavano. E pochi secondi dopo percepì una presenza accanto a sé. Una mano gli si posò sulla spalla, gentile, per niente minacciosa. Poi, però, il tocco si trasformò in una morsa. La pressione si fece sempre più insopportabile e King si morse un labbro, deciso a non gridare per il dolore.

In tono molto calmo, riuscì a dire: «Senti, non riuscirai a uccidermi schiacciandomi con le mani, perciò piantala!».

La pressione si allentò immediatamente e i passi si allontanarono. Sean si sentiva la fronte bagnata di sudore. Poi provò freddo e fu colto dalla nausea. Pensò che dovevano avergli somministrato qualche droga. Voltò la testa e vomitò.

Essere riuscito a vomitare se non altro lo fece sentire vivo. «Mi dispiace per il tappeto» mormorò. Chiuse gli occhi e lentamente scivolò nel sonno.

 

La prima fermata di Michelle fu alle rovine della casa di King. Vagò tra le macerie, mentre pompieri, agenti di polizia e altri ispezionavano i danni e spegnevano gli ultimi, piccoli focolai. Parlò con diverse persone e tutte le confermarono che non erano stati rinvenuti resti umani. Passò lo sguardo sulle rovine di quella che era stata la casa "perfetta" di Sean King e fu presa dallo sconforto. Lì non c'era alcun indizio utile. Scese al molo, si mise a sedere sulla barca a vela di King e osservò il lago placido, cercando di trarre un po' di forza e d'ispirazione dall'essere così vicina alle cose che Sean amava tanto.

Erano due gli elementi che la preoccupavano maggiormente: il mandato emesso contro Bob Scott e la verifica dei movimenti di Doug Denby. Decise di fare qualcosa riguardo a entrambi. Mentre tornava al motel, telefonò a suo padre. Come rispettatissimo capo della polizia, Frank Maxwell conosceva chiunque valesse la pena di conoscere in Tennessee. Michelle gli spiegò cosa voleva.

«Va tutto bene? Dalla voce non si direbbe.»

«Immagino che tu non l'abbia ancora saputo, papà. La notte scorsa hanno fatto saltare la casa di Sean King. E lui è scomparso.»

«Mio Dio! E tu stai bene?»

«Sto bene.» Non gli fece cenno dell'attentato che aveva subito. Già da anni aveva deciso di non parlare molto della propria vita professionale con suo padre. I figli maschi potevano gettarsi ogni giorno tra i pericoli e lui avrebbe considerato la cosa come parte del lavoro, ma non avrebbe preso molto bene il fatto che la sua unica figlia fosse stata quasi uccisa. «Papà, ho bisogno di quelle informazioni al più presto possibile.»

«Ho capito. Non ci vorrà molto.»

Michelle arrivò al motel, andò in camera e fece una serie di telefonate riguardanti Doug Denby, l'ultima a casa dello stesso Denby a Jackson, Mississippi. La donna che le rispose non fornì alcuna informazione, anzi non confermò neppure che l'uomo abitasse lì. Michelle pensò che non era poi così insolito, in fondo lei era un'estranea. Comunque, Denby, se davvero era ricco e senza l'obbligo di presentarsi ogni giorno al lavoro, poteva essere ovunque. E nessuna delle persone con cui Michelle aveva parlato aveva potuto fornirgli un alibi per ognuno dei periodi critici in questione. La sua posizione durante la campagna di Ritter lo rendeva decisamente un sospetto. Ma quale poteva essere il movente?

Lo squillo del telefono la fece sobbalzare. Rispose immediatamente. Era suo padre. Parlò in modo conciso, mentre Michelle prendeva nota delle informazioni.

«Papà, sei il migliore. Ti voglio bene.»

«Be', sarebbe bello se ci venissi a trovare più spesso. È tua madre che continua a lamentarsi» aggiunse in fretta.

«D'accordo. Appena il caso è risolto, vengo a casa.»

Digitò il numero che suo padre le aveva dato. Era lo studio legale che si era occupato della vendita a Bob Scott della proprietà in Tennessee. Il padre di Michelle aveva già chiamato l'avvocato, preannunciandogli la telefonata della figlia.

«Non conosco personalmente suo padre, ma di lui ho sentito cose meravigliose da amici comuni» disse il legale. «Dunque, mi pare di capire che si tratti della vendita di un terreno.»

«Esatto. Lei ha gestito la vendita a un certo Robert Scott di una proprietà che faceva parte di un asse ereditario.»

«Sì, suo padre me ne ha accennato al telefono. Ho trovato la pratica. L'acquirente era appunto Robert Scott, che ha pagato in contanti. Non una gran cifra: era solo un vecchio cottage e, anche se la proprietà è vasta, il terreno è quasi tutto bosco e pendio ed è molto fuori mano.»

«Ho saputo che il precedente proprietario non era al corrente dell'esistenza di un bunker.»

«Suo padre mi ha parlato anche del bunker. Devo ammettere che ne ero all'oscuro anch'io. Nella descrizione del lotto non compare e non avevo ragione di sospettarne l'esistenza. Se l'avessi saputo, credo che avrei informato l'esercito. Non so proprio cosa dire. Insomma, cosa ci fai con un bunker?»

«Lei ha mai visitato personalmente la proprietà?»

«No.»

«Io sì. L'accesso al bunker è una porta nel sotterraneo.»

«È impossibile!»

«Perché?»

«Non c'era alcun sotterraneo. Ho la pianta del cottage davanti a me.»

«Be', forse il sotterraneo non c'era all'epoca del suo cliente, ma adesso c'è. Forse Bob Scott sapeva del bunker e ha costruito il sotterraneo proprio per accedervi.»

«Immagino che sia possibile. Ho esaminato i precedenti passaggi di proprietà e ho visto che, dopo l'esercito, ci sono stati parecchi proprietari. Anzi, all'epoca dell'esercito il cottage non esisteva. È stato costruito da uno dei proprietari successivi.»

«Lei non ha per caso una fotografia di Bob Scott? Sarebbe molto importante.»

«Be', di solito, quando concludiamo una compravendita, facciamo sempre una fotocopia della patente di guida delle parti. Sa, per comprovarne l'identità, dato che devono firmare documenti legali per la registrazione ufficiale.»

Michelle per poco non fece un salto per l'eccitazione. «Potrebbe mandarmi subito quella foto per fax?»

«No, non posso.»

«Ma non è un'informazione riservata.»

«No, non lo è.» Il legale sospirò e aggiunse: «Questa mattina, quando ho aperto la pratica, era la prima volta che ci guardavo dal giorno in cui è stata conclusa la transazione. E non ho trovato la copia della patente di Mr Scott».

«Forse vi siete dimenticati di farla.»

«In trent'anni che è con me, la mia segretaria non si è mai dimenticata.»

«Allora è possibile che qualcuno abbia sottratto la fotocopia dalla pratica.»

«Non so cosa pensare. Semplicemente non c'è.»

«Si ricorda che aspetto aveva Bob Scott?»

«L'ho visto una sola volta e per pochi minuti, al momento della firma. In un anno faccio centinaia di transazioni del genere.»

«Non potrebbe pensarci su un momento e cercare di descrivermelo?»

L'avvocato fece del suo meglio. Michelle lo ringraziò e riattaccò.

La descrizione fornita dal legale era troppo vaga per permetterle di concludere che si trattava effettivamente di Bob Scott. E in otto anni una persona poteva cambiare moltissimo, in particolare chi, come Scott, si era isolato dal mondo. E lei non aveva neppure idea di che aspetto avesse avuto Denby. Dio, stava girando a vuoto. Le ci vollero parecchi, lunghi respiri per calmarsi. Lasciarsi prendere dal panico non avrebbe aiutato Sean.

Impossibilitata a procedere con le sue piste, cominciò a interrogarsi su King. Le aveva detto che stava lavorando su qualcosa, qualcosa che richiedeva ulteriori ricerche. Cosa aveva detto, esattamente? Che era andato da qualche parte. Si tormentò il cervello nel tentativo di ricordare.

E alla fine ricordò. Afferrò le chiavi e corse al fuoristrada.

 

68

 

Entrò a passo veloce nella biblioteca legale dell'Università della Virginia e andò direttamente al banco di servizio. La bibliotecaria di turno non era quella che aveva aiutato King, ma disse a Michelle dove trovarla.

Michelle mostrò il distintivo del Servizio segreto alla donna e le spiegò che aveva bisogno di sapere quello che King aveva cercato in biblioteca.

«Ho visto in televisione che la sua casa è bruciata. Lui sta bene? Non hanno detto niente in proposito.»

«Be', al momento non lo sappiamo proprio. È per questo che mi serve il suo aiuto.»

La bibliotecaria riferì a Michelle ciò che King le aveva chiesto, poi l'accompagnò nella stessa saletta e la registrò nel sistema.

«Era il Martindale Hubbell» disse la donna.

«Mi scusi, ma non me ne intendo. Che cos'è il Martindale Hubbell?»

«È l'annuario di tutti gli avvocati abilitati negli Stati Uniti. Sean ne aveva una copia nel suo studio, ma era l'edizione più recente. Lui invece aveva bisogno di un annuario di qualche anno fa.»

«Ha detto di quando, esattamente?»

«Primi anni Settanta.»

«Non ha detto altro? Niente che possa restringere un po' la ricerca?» Michelle non sapeva quanti fossero gli avvocati negli Stati Uniti, ma era certa che fossero molti di più di quelli che avrebbe avuto il tempo di controllare.

La donna scosse la testa. «Mi dispiace, non so altro.»

La bibliotecaria si allontanò. Quando Michelle vide che l'annuario conteneva ben oltre un milione di nomi, contemplò il monitor con aria scoraggiata. Più di un milione di avvocati negli Stati Uniti? Nessuna meraviglia che le cose siano così incasinate.

Non sapendo bene da che parte cominciare, fece scorrere lo sguardo sulla home page e notò una lista che le fece raddrizzare la schiena. Si chiamava "Ultime ricerche effettuate" ed elencava gli ultimi documenti consultati dall'utente che aveva utilizzato il terminale.

Cliccò sulla prima voce. Quando lesse il nome del legale, e la sua provenienza, balzò in piedi e attraversò di corsa la biblioteca, osservata con stupore da molti aspiranti avvocati.

Era già al telefono prima ancora di arrivare al fuoristrada. La mente lavorava così freneticamente e riempiva le caselle vuote a una tale velocità che l'interlocutore dovette dire "pronto" tre volte, prima che lei se ne accorgesse.

«Parks!» gridò. «Sono Michelle. Credo di sapere dove si trova Sean. E so chi diavolo c'è dietro a tutto quanto.»

«Ehi, calmati. Di cosa stai parlando?»

«Troviamoci davanti al Greenberry's nel centro commerciale di Barracks Road, più in fretta che puoi. E chiama la cavalleria. Dobbiamo muoverci subito!»

«Barracks Road? Ma non sei in ospedale?»

Michelle chiuse la comunicazione senza rispondere.

Mentre accelerava a bordo del fuoristrada, pregò che non fosse troppo tardi.

 

Parks l'aspettava davanti al bar. Era solo e non sembrava per niente contento. «Cosa diavolo ci fai fuori dall'ospedale?»

«Dove sono i tuoi uomini?» gli chiese Michelle.

Il marshal era di pessimo umore. «Cosa credi, che io e la cavalleria ce ne stiamo seduti intorno al fuoco, in attesa che tu suoni la carica? Mi telefoni, mi urli nell'orecchio, non mi dici un accidente e ti aspetti che io materializzi un esercito senza neppure sapere dove diavolo si suppone che dobbiamo andare? Io lavoro per il governo federale, carina, proprio come te, con budget e mano d'opera limitati. Non sono James Bond.»

«Okay, okay, scusami. È solo che sono molto eccitata. E non abbiamo molto tempo.»

«Voglio che tu prenda un bel respiro, raccolga le idee e mi racconti cosa sta succedendo. E, se davvero hai risolto il caso e abbiamo bisogno di uomini, li troveremo. Basterà una telefonata. Okay?» La guardò con un misto di speranza e scetticismo.

Michelle cercò di calmarsi. «Sean è andato alla biblioteca legale per cercare informazioni su un avvocato che io credo abbia difeso Arnold Ramsey negli anni Settanta, quando era stato arrestato.»

«Ramsey arrestato? Da dove salta fuori questa notizia?»

«Sean e io l'abbiamo saputo per caso.»

Parks la fissò con curiosità. «E come si chiama questo avvocato?»

«Ronald Morse, della California. Sono sicura che sia il padre di Sidney Morse. Sidney Morse doveva aver conosciuto Arnold Ramsey moltissimo tempo prima, forse al college. Ma questo non c'entra. Naturalmente non si tratta di Sidney, ma di Peter Morse, il fratello minore: c'è lui dietro a tutta questa faccenda. So che sembra assurdo, ma ne sono quasi certa. Sean si è distratto per un momento, Clyde Ritter è stato ucciso e la vita di Sidney è stata rovinata per sempre. Peter ha il denaro e l'esperienza criminale per mettere insieme tutto questo. Sta vendicando il fratello, che adesso è in un ospedale psichiatrico e afferra al volo palline da tennis. E noi non l'avevamo neppure inserito nella nostra lista dei sospetti! È lui che ha preso Sean, Joan e Bruno. E io so dove li tiene.»

«Be', che cosa diavolo stiamo aspettando? Andiamo» disse Parks. Saltarono a bordo del fuoristrada e uscirono dal parcheggio a una tale velocità da lasciare sull'asfalto tracce dei pneumatici posteriori. Il marshal si attaccò al telefono e cominciò a convocare i rinforzi. Di nuovo, Michelle pregò che non fosse troppo tardi.

 

69

 

Si svegliò così intontito che ebbe la certezza di essere stato drogato. La testa gli si schiarì lentamente e fu allora che si rese conto che poteva muovere braccia e gambe. Si tastò ansiosamente e non trovò alcun legaccio. Con estrema lentezza si sollevò a sedere, preparandosi a un eventuale attacco, poi abbassò i piedi fino a trovare il pavimento. Si alzò. Sentiva qualcosa in un orecchio, qualcosa che gli si sfregava sulla nuca e un rigonfiamento all'altezza della cintura.

All'improvviso si accese la luce e King si ritrovò a fissare la propria immagine in un grande specchio sulla parete opposta. Indossava un abito scuro con cravatta a piccoli disegni e calzava un paio di scarpe nere con la suola in gomma. E la mano che si stava passando sul corpo aveva appena estratto una .357 dalla fondina. Era pettinato in modo diverso. Esattamente come nel... Maledizione! Cercò di controllare il caricatore, ma l'arma era stata bloccata in modo tale da rendere l'operazione impossibile. Dal peso della pistola dedusse che il caricatore doveva essere pieno, ma avrebbe scommesso che le munizioni erano a salve. Era esattamente lo stesso modello d'arma che aveva avuto nel 1996, così come erano gli stessi l'abito e il taglio di capelli. Rimise la pistola nella fondina alla cintura e guardò nello specchio un uomo che sembrava di otto anni più giovane. Mentre si avvicinava adagio allo specchio notò il piccolo oggetto sul risvolto della giacca. Era il distintivo del Servizio segreto, rosso, il colore della mattina del 26 settembre 1996. Nel taschino della giacca c'erano addirittura gli occhiali da sole.

Voltò appena la testa e vide il cavetto arricciato dell'auricolare nell'orecchio sinistro. Non c'erano dubbi: era di nuovo l'agente del Servizio segreto Sean Ignatius King. Era incredibile che tutto fosse cominciato con l'omicidio di Howard Jennings nel suo studio, davvero una strana coinci... Fissò la propria immagine, che a sua volta lo fissava attonita dallo specchio. Le accuse montate contro Ramsey... non era stato affatto Bruno. Finalmente l'ultimo tassello si infilò al suo posto. Ma adesso non poteva farci assolutamente niente. Anzi, era molto probabile che non avrebbe più avuto la possibilità di rimediare.

Improvvisamente lo sentì, da qualche parte, in distanza: il basso mormorio di quelle che sembravano essere centinaia, se non migliaia, di voci smorzate. La porta della stanza in cui si trovava era aperta. Esitò per un attimo e poi la varcò. Cominciò a percorrere il corridoio, sentendosi un po' come un topo da laboratorio in un labirinto. Più andava avanti, più quella sensazione diventava forte. Non era un pensiero confortante, ma che scelta aveva? Arrivato in fondo al corridoio vide aprirsi una porta, oltre la quale splendeva una luce brillante e risuonava alto il mormorio delle voci. King raddrizzò le spalle ed entrò.

La Stonewall Jackson Room del Fairmount Hotel era molto diversa dall'ultima volta che l'aveva vista e tuttavia la sensazione era ancora quella di intima familiarità. Nella sala illuminatissima, il cordone di velluto e i relativi sostegni si trovavano esattamente dove erano stati otto anni prima. Dietro il cordone c'era la folla, costituita da centinaia di figure di cartone rette da supporti metallici, accuratamente dipinte e complete di striscioni e cartelli con la scritta VOTA CLYDE RITTER. La cacofonia delle voci simulate usciva da altoparlanti nascosti. Era veramente una produzione in grande stile.

King si guardò intorno e si sentì sommergere dai ricordi. Vide i visi dipinti sul cartone dei suoi colleghi del Servizio segreto, nelle stesse posizioni di otto anni prima. Posizioni sbagliate, com'era poi risultato. Riconobbe altri volti. Alcune figure nella folla dipinta tendevano bambini piccoli da far baciare al candidato, altre avevano blocco e penna per l'autografo, altri ancora esibivano larghi sorrisi. Alla parete era stato riappeso il grande orologio, secondo il quale erano le dieci e quindici minuti. Se si trattava di ciò che Sean pensava, aveva ancora diciassette minuti a disposizione.

Spostò lo sguardo sugli ascensori e aggrottò la fronte. Che ruolo avrebbe avuto l'ascensore? Non potevano certo ripetere la stessa scena, visto che ormai mancava l'elemento sorpresa. Eppure, per qualche ragione, avevano rapito Joan. Sentì il cuore accelerare i battiti e le mani tremargli leggermente. Era passato molto tempo da quando era stato un agente del Servizio segreto, e in tutti quegli anni non aveva fatto niente di più stressante e impegnativo che redigere in un linguaggio prolisso migliaia di noiosi, pur se creativi, documenti legali.

Ma intuiva che nei prossimi sedici minuti avrebbe dovuto essere all'altezza dell'agente esperto che era stato in passato. Passando lo sguardo sulle figure inanimate al di là del cordone rosso, si chiese dove tra loro sarebbe emerso l'assassino in carne e ossa.

Le luci si abbassarono e i rumori della folla cessarono. Risuonarono dei passi. L'uomo era così cambiato che Sean, se non si fosse aspettato di vederlo, probabilmente non l'avrebbe riconosciuto.

«Buongiorno, agente King» disse l'uomo della Buick. «Spero che tu sia pronto per il tuo gran giorno.»

 

70

 

Appena giunti sul posto, Parks e Michelle parlarono con il funzionario a capo del contingente locale di polizia, allertata dallo stesso Parks. L'uomo aveva reclutato nel gruppo diversi marshal e altri elementi delle forze dell'ordine operanti nell'area del North Carolina. "Arriveranno prima di noi" aveva detto Parks a Michelle durante il viaggio. La ragazza aveva risposto: "Da' ordine di circondare l'hotel: gli uomini possono piazzarsi proprio sul bordo del bosco e nessuno li vedrà".

Michelle e il marshal si inginocchiarono tra gli alberi, alle spalle del Fairmount. Un'auto della polizia, invisibile dall'albergo, bloccava la strada d'accesso. Michelle individuò un tiratore scelto su un albero, il mirino telescopico del fucile puntato sulla porta principale dell'hotel.

«Sei sicuro di avere abbastanza uomini?» domandò a Parks.

Il marshal puntò un dito verso diversi punti nell'oscurità, dove erano piazzati altri agenti. Michelle non riuscì a vederli, ma ne avvertì la presenza rassicurante.

«Ne abbiamo più che a sufficienza» ribadì Parks. «Il punto è: riusciremo a trovare Sean e gli altri vivi?» Posò a terra il fucile e afferrò il walkie-talkie. «Okay, tu sei stata dentro quell'albergo e ne conosci la pianta: qual è il modo migliore per entrare?»

«L'ultima volta che Sean e io siamo stati qui, quando abbiamo catturato gli evasi, prima di andarcene abbiamo aperto un varco nella recinzione, per evitare di doverla scavalcare di nuovo. Possiamo passare di là. Le porte sono bloccate con catene, ma c'è una grande finestra rotta a circa dieci metri dall'ingresso principale. Da lì possiamo arrivare nell'atrio in pochi secondi.»

«L'albergo è molto grande. Hai idea di dove possano essere?»

«Ho solo un'ipotesi, ma piuttosto plausibile: la Stonewall Jackson Room. È una sala adiacente all'atrio. Ha una sola porta, ma una batteria di ascensori all'interno.»

«Perché sei così sicura che siano là dentro?»

«Il Fairmount è un vecchio edificio, pieno di cigolii, scricchiolii, topi e altro ancora. Ma quando mi sono trovata in quella sala con la porta chiusa non ho sentito più niente: c'era silenzio, troppo silenzio. Poi ho riaperto la porta e ho sentito di nuovo tutti i soliti rumori.»

«Non capisco cosa intendi dire.»

«Credo che quella sala sia stata insonorizzata, Jefferson.»

Il marshal la fissò. «Comincio ad afferrare.»

«I tuoi uomini sono tutti in posizione?» Parks annuì. Michelle guardò l'orologio. «È quasi mezzanotte, ma c'è la luna piena. Bisogna attraversare un tratto di terreno scoperto per arrivare alla recinzione. Se riusciamo a sferrare l'attacco principale dall'interno avremo maggiori possibilità di non subire perdite.»

«Ha l'aria di un piano. Comunque dovrai essere tu a farmi strada, io non conosco il terreno.» Parks parlò nel walkie-talkie e ordinò ai suoi uomini di restringere il perimetro.

Michelle fece per scattare, ma il marshal le afferrò un braccio.

«Senti, da giovane ero un atleta piuttosto in gamba, ma non sono mai stato un olimpionico. E adesso ho le ginocchia a pezzi, per cui potresti rallentare un po', in modo che non ti perda di vista?»

La ragazza sorrise. «Non preoccuparti, sei in buone mani.»

Avanzarono veloci tra gli alberi e si fermarono sul bordo del tratto scoperto che dovevano attraversare per raggiungere la recinzione. Michelle guardò Parks, che aveva il fiato corto.

«Sei pronto?» Il marshal annuì e le mostrò il pollice.

La ragazza uscì allo scoperto e si lanciò verso la recinzione. Parks la seguì. Mentre correva, Michelle si concentrò dapprima su quello che vedeva davanti a sé, ma poi l'attenzione si spostò su ciò che aveva alle spalle. Ed era qualcosa di agghiacciante.

Quelli non erano passi normali: erano gli stessi balzi dissonanti che aveva sentito dalla finestra della sua camera al motel, i passi di chi aveva tentato di ucciderla. Si era sbagliata: non era la corsa faticosa di una persona ferita e dolorante. Era l'andatura artritica di un uomo con le ginocchia malmesse. Un uomo che adesso stava anche ansimando.

Michelle si buttò al riparo di un albero caduto una frazione di secondo dopo la scarica del fucile a canne mozze, che centrò il punto esatto dove si era trovata un istante prima. Rotolò su se stessa, estrasse la pistola e rispose al fuoco, esplodendo i colpi in un ampio arco letale.

Parks imprecò e si gettò a terra, evitando di poco i proiettili di Michelle. Sparò di nuovo.

«Accidenti a te, ragazza!» gridò. «Sei troppo furba per il tuo stesso bene.»

«Sei un bastardo!» urlò Michelle, studiando contemporaneamente l'area in cerca di una via di fuga e di eventuali complici di Parks. Sparò altri due colpi, che scheggiarono il grosso masso dietro il quale il marshal si era riparato.

Parks ricambiò il favore con altre due scariche. «Mi dispiace, ma non avevo scelta.»

Michelle guardò la linea degli alberi direttamente dietro di sé e si chiese se sarebbe riuscita ad arrivarci senza morire. «Oh, grazie tante. Questo mi fa sentire molto meglio. Com'è andata? Il Marshal Service non ti paga abbastanza?»

«In effetti, no. Molto tempo fa, quando facevo ancora il poliziotto a Washington, ho commesso un grosso errore, un errore che poi è tornato a tormentarmi.»

«Ti andrebbe di illuminarmi, prima di uccidermi?» Continua a farlo parlare, si disse Michelle. Forse sarebbe riuscita a inventare un modo per cavarsela.

Parks esitò e poi disse: «Millenovecentosettantaquattro. Ti suggerisce qualcosa?».

«Le proteste contro Nixon?» Michelle si spremette il cervello e poi, di colpo, capì: «Tu sei il poliziotto che ha arrestato Arnold Ramsey». Parks non disse nulla. «Ma Ramsey era innocente, non aveva ucciso lui quell'uomo della Guardia Nazionale...» La verità la colpì in un lampo accecante. «Sei stato tu a ucciderlo e a fare in modo che l'omicidio ricadesse su Ramsey. E ti hanno pagato per farlo.»

«Quelli erano tempi strani. E io allora ero una persona diversa. Comunque non doveva andare così. Credo di aver colpito quel ragazzo con troppa forza. Sì, è vero: mi hanno pagato e, per come sono andate le cose, neppure abbastanza.»

«E chi ti ha pagato allora, adesso ti sta ricattando perché tu faccia tutto questo?»

«Come dicevo, mi sta costando caro. Non esiste prescrizione per l'omicidio.»

Michelle non lo stava più ascoltando. Le era venuto in mente che Parks stava seguendo la sua stessa strategia: farla parlare finché i suoi uomini non l'avessero circondata. Cercò di ricordare il modello del fucile del marshal. Okay, era un Remington a cinque colpi. O almeno così sperava. Parks aveva fatto fuoco quattro volte e lì c'era un tale silenzio che, se avesse ricaricato, lei sicuramente lo avrebbe sentito.

«Ehi, Michelle, sei ancora lì?»

La ragazza rispose esplodendo tre colpi contro il masso. In cambio ricevette una scarica. Non appena si sentì sfiorare dai pallettoni, scattò in piedi e corse verso gli alberi.

Imprecando, Parks ricaricò il fucile, ma quando riuscì a prendere la mira, Michelle era già troppo lontana perché i suoi colpi potessero raggiungerla. Gridò nel walkie-talkie.

Michelle lo vide arrivare. Deviò sulla sinistra, superò un tronco con un salto e si appiattì a terra, un attimo prima che i pallettoni si conficcassero nella corteccia.

Adesso stava sparando anche l'uomo che aveva visto sull'albero, quello che aveva creduto essere un tiratore scelto della polizia. Esplose diversi colpi nella sua direzione, si spostò di una decina di metri strisciando sulla pancia e poi si rialzò.

Come aveva potuto essere così maledettamente cieca? Un altro colpo si piantò in un albero, vicino alla sua testa, e Michelle si buttò di nuovo a terra. Mentre inspirava grandi boccate d'aria, cercò di valutare le sue deprimenti opzioni. In pratica non ce n'era nessuna che escludesse la sua morte violenta. Erano in grado di trovarla setacciando l'area metro per metro e non poteva fare niente per impedirlo. Un momento: il cellulare! La mano si abbassò per afferrarlo, ma solo per scoprire che si era sganciato dal fermaglio alla cintura. Adesso era tagliata fuori da qualsiasi possibilità di aiuto e si ritrovava con almeno due killer che le davano la caccia nel buio di un bosco in mezzo al nulla. Be', questo batteva di gran lunga i peggiori incubi che avesse mai avuto da bambina.

Sparò altri colpi nella direzione da cui pensava i due stessero arrivando, poi balzò in piedi e scattò a tutta velocità. La luna piena era al tempo stesso una benedizione e una maledizione. Le permetteva di vedere dove stava andando, ma metteva anche i suoi inseguitori in condizione di vedere lei.

Uscì di corsa dal bosco e poi frenò di colpo, appena in tempo.

Si trovava esattamente sul bordo dell'argine del fiume che aveva visto durante la sua prima visita al Fairmount. Se avesse fatto solo un altro passo avanti, sarebbe precipitata in una lunga caduta. Il problema era che Parks e il suo collega le stavano arrivando alle spalle. Controllò rapidamente il caricatore: c'erano ancora cinque colpi e con sé aveva un caricatore di scorta. Tra pochi secondi i due sarebbero emersi dagli alberi e avrebbero potuto centrarla senza problemi, a meno che non fosse riuscita a trovare un posto dove nascondersi e sparare per prima. Tuttavia, anche se avesse eliminato uno dei due, gli spari avrebbero rivelato la sua posizione e l'altro probabilmente l'avrebbe colpita. Si guardò intorno, cercando la soluzione con le maggiori probabilità di sopravvivenza. Diede un'altra occhiata al precipizio e al fiume che scorreva veloce. Il piano prese forma in pochi secondi. Qualcuno avrebbe forse potuto definirlo insensato, ma la maggior parte della gente avrebbe usato il termine suicida. Al diavolo tutto. Le situazioni estreme le erano sempre piaciute. Rimise la pistola nella fondina, prese un lungo respiro e aspettò.

Appena li sentì arrivare alla radura, si buttò giù, urlando. Aveva scelto il punto con estrema attenzione: a circa sei metri sotto il bordo del precipizio, c'era una piccola cengia rocciosa. Vi atterrò e allargò braccia e gambe, cercando di aggrapparsi a qualsiasi appiglio. Per poco non scivolò e solo due dita disperatamente artigliate le evitarono il tuffo nel fiume.

Alzò gli occhi e vide Parks e il suo compagno che guardavano in basso, cercandola. Una sporgenza rocciosa alla sua sinistra impediva ai due di vederla. E dietro di loro c'era la luna, contro la quale si stagliavano perfettamente le figure di entrambi. Michelle avrebbe potuto centrarli senza problemi ed ebbe la forte tentazione di farlo. Ma doveva pensare in termini più ampi e il suo piano era un altro. Appoggiò un piede contro il piccolo tronco d'albero rimasto impigliato sulla cengia. La presenza del tronco e il nascondiglio naturale che offriva era una delle ragioni per cui aveva scelto quel punto d'atterraggio. Spinse finché il tronco non fu sull'orlo del precipizio. Alzò lo sguardo. I due uomini la stavano ancora cercando, spostando la luce delle torce e indicandosi a vicenda varie posizioni. Non appena guardarono da un'altra parte, Michelle urlò con tutto il fiato che aveva in gola e spinse con forza il tronco, che precipitò nel vuoto.

Lo guardò colpire la superficie del fiume, poi alzò la testa e vide i due uomini puntare le torce in quel punto. Trattenne il respiro, pregando che credessero al suo tuffo verso la morte. A mano a mano che i secondi passavano e i due non se ne andavano, cominciò a pensare che dopo tutto avrebbe fatto meglio a tentare di sparare a entrambi. Ma poco dopo Parks e il suo complice dovettero decidere che era morta, perché si voltarono e tornarono nel bosco.

Per essere certa che se ne fossero andati davvero, Michelle aspettò ancora una decina di minuti, poi si aggrappò a una roccia e cominciò l'arrampicata per risalire. Nonostante le armi e la superiorità numerica, se Parks e il suo socio avessero visto l'espressione sul viso della ragazza mentre si issava fuori dall'oblio, avrebbero temuto per le loro vite.

 

71

 

«Sei cambiato moltissimo, Sidney» disse King. «Sei dimagrito. Quasi non ti riconoscevo, sei così diverso. Comunque hai un bell'aspetto. Tuo fratello, invece, non è invecchiato altrettanto bene.»

Sidney Morse, il brillante manager della campagna elettorale di Ritter, che avrebbe dovuto trovarsi in un ospedale psichiatrico dell'Ohio, guardava con espressione divertita l'ex agente, al petto del quale puntava una pistola. Vestito elegantemente, sbarbato, con i radi capelli grigi ben pettinati, Morse era un uomo slanciato e dall'aspetto distinto.

«Sono davvero colpito. Cosa ti ha fatto pensare che dietro tutta questa storia ci fosse qualcuno di diverso dallo sfortunato Mr Scott?»

«Il biglietto che hai lasciato nel bagno di casa mia. Un vero agente del Servizio segreto non avrebbe mai usato l'espressione "coprire la postazione": avrebbe detto semplicemente "coprire". Inoltre Bob Scott, da ex militare, usava sempre tutte le ventiquattr'ore: non avrebbe mai specificato "AM" per indicare un'ora del mattino. E poi ho cominciato a chiedermi: perché Bowlington? E, soprattutto, perché il Fairmount Hotel? Perché si trovava a trenta minuti da Arnold Ramsey, ecco perché. Come manager della campagna, potevi organizzare tutto facilmente.»

«Ma avrebbero potuto farlo anche molti altri, compresi Doug Denby e lo stesso Ritter. E agli occhi del mondo io sono uno zombi in Ohio.»

«Non a quelli di un agente del Servizio segreto» ribatté Sean. «Lo ammetto, mi ci è voluto un po' di tempo, ma alla fine ci sono arrivato.» Con un cenno del capo indicò la pistola nella mano di Sidney. «Sei mancino, alla fine me ne sono ricordato. Noi del Servizio segreto abbiamo la tendenza a mettere a fuoco i piccoli dettagli. E invece lo zombi in Ohio afferra al volo le palle da tennis con la destra. Inoltre in ospedale ho visto una foto in cui Peter Morse impugna una mazza da baseball con la destra, un'ulteriore conferma.»

«Il mio caro fratellino. È sempre stato un buono a nulla.»

«Be', è stato parte integrante del tuo piano» disse King, quasi dandogli la battuta.

Morse sorrise. «Vedo che non hai abbastanza cervello per capire l'intero schema e vuoi che te lo spieghi io. Okay, tanto non ti vedo proprio a testimoniare in tribunale. Le pistole pulite che io e Arnold avevamo al Fairmount le avevo avute dal mio fratello con tendenze criminali.»

«E hai nascosto la tua nel ripostiglio dopo che Ritter è stato ucciso.»

«Quella cameriera mi ha visto e ha passato i successivi sette anni a ricattarmi. Ha smesso solo quando ha creduto che fossi stato ricoverato in manicomio. È stata la tua amica Maxwell che, senza volerlo, mi ha rivelato l'identità della ricattatrice. E io gliel'ho fatta pagare. Con gli interessi.»

«Come hai fatto anche con Mildred Martin.»

«Non era in grado di attenersi alle istruzioni. Non tollero gli stupidi.»

«Immagino che anche tuo fratello rientri nella categoria.»

«Probabilmente è stato un errore coinvolgerlo, ma dopo tutto era di famiglia e dispostissimo a collaborare. Però, a mano a mano che il tempo passava e il mio povero fratello continuava a drogarsi, ho cominciato a temere che potesse parlare. Inoltre avevo io tutto il denaro di famiglia e c'era sempre la possibilità che mi ricattasse. Il posto migliore dove tenere un "problema" è in piena vista, così per un po' me lo sono tenuto vicino e l'ho mantenuto. Al momento giusto, ho scambiato le nostre identità e l'ho fatto ricoverare.»

«Ma perché lo scambio di identità?»

«Mi garantiva che il mondo pensasse che ero da qualche altra parte mentre organizzavo questo mio piccolo piano. Altrimenti qualcuno avrebbe potuto cominciare a curiosare in giro.» Morse allargò le braccia. «Pensaci. Parecchi attori dell'imbroglio Ritter riuniti tutti insieme su un set elaborato come questo? La gente inevitabilmente avrebbe cominciato a pensare a me. Essere ricoverato in manicomio era addirittura meglio che essere morto, dato che la morte si può simulare. Ero convinto che nessuno sarebbe mai riuscito a scoprire che io avevo fatto ricoverare Peter e non il contrario.» Morse sorrise. «Se decidi di fare qualcosa, perché non farlo con stile?»

King scosse la testa. Voleva guadagnare quanto più tempo possibile continuando a farlo parlare. Era chiaro che Morse voleva gloriarsi del suo piano grandioso e lui avrebbe potuto utilizzare quel tempo supplementare per elaborare una strategia. «Io avrei agito diversamente: l'avrei fatto ricoverare e poi l'avrei eliminato. Così saresti stato sicuro che tutti ti avrebbero creduto morto.»

«Ma ucciderlo poteva comportare un'autopsia, dalla quale, se si fossero procurati vecchie cartelle cliniche o dentistiche per un confronto, avrebbero potuto scoprire che il morto non ero io. Se mio fratello muore per cause naturali, non c'è problema. Lui e io ci assomigliavamo abbastanza e gli altri piccoli ritocchi estetici cui ho provveduto sono stati sufficienti per ingannare chiunque. Il mio genio è nei particolari. Per esempio, questa sala è insonorizzata. Perché mai preoccuparsi di una cosa del genere in un hotel abbandonato? Perché con il rumore non si sa mai: si trasmette in modi strani, imprevedibili, e io non voglio assolutamente alcuna interruzione. Rovinerebbe tutto lo spettacolo e io finora non ho mai deluso il mio pubblico. Mi piace fare le cose con una certa eleganza. Come il biglietto di cui parlavi: avrei potuto semplicemente mettertelo nella cassetta della posta. Ma un cadavere appeso alla porta è un classico. È così che mi piace.»

«Ma perché coinvolgere Bob Scott? Come dicevi, nessuno avrebbe mai sospettato di te.»

«Rifletti, agente King, rifletti. Ogni dramma ha bisogno del cattivo. E poi, all'epoca in cui ero con Ritter, l'agente Scott non mi ha mai dimostrato il rispetto che meritavo. È vissuto abbastanza da pentirsene.»

«Okay, quindi tu hai fritto il cervello di tuo fratello, gli hai mutilato la faccia per nasconderne ulteriormente l'identità, l'hai fatto ingrassare, mentre tu dimagrivi, vi siete trasferiti in Ohio, dove nessuno vi conosceva, e hai fatto scattare lo scambio di identità. È stata davvero una grande produzione. Proprio come la campagna di Ritter.»

«Clyde Ritter era solo un mezzo per raggiungere un fine.»

«Giusto. La storia non aveva niente a che fare con Clyde Ritter e tutto con Arnold Ramsey. Lui aveva qualcosa che tu volevi. La volevi così intensamente che l'hai portato alla morte per potertene impadronire.»

«Gli ho fatto un favore. Sapevo che odiava Ritter. La sua carriera accademica aveva raggiunto il massimo molto tempo prima. Era depresso e maturo per la mia proposta. Gli ho fatto rivivere il suo passato glorioso di contestatore radicale. L'ho fatto passare alla storia come l'assassino di un uomo immorale e disgustoso, un martire per l'eternità. Cosa poteva esserci di meglio?»

«Il fatto che tu la facessi franca e ti portassi via il premio vero. Quello che avevi già cercato di ottenere trent'anni fa, incastrando Ramsey con l'omicidio di una guardia nazionale. Ma quel tentativo è fallito, così come è fallito il piano Ritter. Anche se Arnold era sparito, non hai comunque vinto.»

Morse sembrava divertito. «Va' avanti, stai andando bene. Cos'è che non ho vinto?»

«La donna che volevi, Regina Ramsey, l'attrice dal luminoso futuro. Scommetto che era stata la protagonista di alcune delle tue produzioni di tanto tempo fa. E non si trattava solo di affari: tu l'amavi. Solo che lei amava Arnold.»

«Ironia della sorte, sono stato proprio io a presentarli. Avevo conosciuto Ramsey mentre stavo preparando un lavoro teatrale che parlava delle proteste per i diritti civili e dovevo fare delle ricerche sull'argomento. Non avrei mai immaginato che due persone così assolutamente diverse... Be', lui di certo non la meritava. Io e Regina eravamo una squadra, una grande squadra con tutto il mondo davanti a noi. Eravamo destinati a un enorme successo. Con la presenza che aveva in scena, Regina sarebbe diventata una star di Broadway, una delle più grandi.»

«Facendo diventare una star anche te.»

«Ogni grande impresario ha bisogno di una musa. E, credimi, ero stato io a tirare fuori il meglio da lei. Nessuno avrebbe potuto fermarci. E invece, quando ha sposato Ramsey, tutto il mio potere artistico è svanito. La mia carriera è finita e Arnold ha sprecato la vita di Regina in quel suo patetico, piccolo mondo accademico da college di terza categoria.»

«Be', quella è stata opera tua. Tu hai rovinato la sua carriera.»

«Mi hai fatto un sacco di domande, adesso lascia che te ne faccia una io. Cos'è che ha richiamato la tua attenzione su di me?»

«Qualcosa che mi è stato detto. Così ho cominciato a scavare nella tua famiglia e ho scoperto che l'avvocato che aveva fatto cadere l'accusa d'omicidio contro Ramsey era tuo padre. Immagino che il tuo piano consistesse nel fare sembrare Arnold colpevole, in modo che Regina smettesse di amarlo. A quel punto saresti arrivato tu, il cavaliere senza macchia che avrebbe salvato Arnold e si sarebbe preso Regina come premio. Sembra uscito dal copione di un film.»

Morse contrasse le labbra. «Solo che il copione non ha funzionato.»

«Già, però tu hai aspettato finché non ti si è presentata un'altra occasione.»

Morse annuì e sorrise. «Io sono un uomo molto paziente. Quando Ritter ha annunciato la sua candidatura, ho capito che quell'occasione era arrivata.»

«Perché non limitarti a uccidere il tuo rivale in amore?»

«E dove sarebbe stato il divertimento? Il dramma? Non è così che faccio le cose, te l'ho detto. E poi, se l'avessi semplicemente ucciso, Regina l'avrebbe amato ancora di più. Sì, dovevo uccidere Arnold Ramsey, ma non volevo che poi lei lo piangesse. Volevo che lo detestasse. Dopodiché avremmo potuto tornare a essere una squadra. Naturalmente Regina era un po' invecchiata, ma il suo talento... quello non invecchia mai. Avremmo potuto ancora far accadere la magia. Io lo sapevo.»

«E così l'omicidio di Ritter è stato la tua seconda, grande produzione.»

«In realtà convincere Ramsey è stato molto facile. Lui e Regina finalmente si erano separati, ma io sapevo che lei l'amava ancora. Era arrivato il momento che lo vedesse come un assassino squilibrato, non come il nobile, brillante attivista che aveva sposato. Mi incontrai segretamente con Arnold parecchie volte. Li avevo aiutati durante i tempi magri, per cui mi considerava un amico. Gli ricordai la sua gioventù, quando voleva cambiare il mondo, e lo sfidai a essere di nuovo un eroe. Quando poi gli dissi che ero pronto a unirmi a lui e che Regina sarebbe stata orgogliosissima, capii di averlo in pugno. E il piano funzionò stupendamente.»

«Solo che la vedova inconsolabile ti respinse di nuovo. E la seconda volta è stata ancor più devastante, perché voleva dire che non ti amava.»

«Quella non è stata la fine della storia, che è poi la ragione per cui oggi siamo qui.»

King lo fissò. «In seguito Regina si è suicidata. Oppure no?»

«Stava per risposarsi. Con un uomo molto simile ad Arnold Ramsey.»

«Thornton Jorst.»

«Doveva avere un gene difettoso per cui le piaceva quel tipo d'uomo. Ho cominciato a rendermi conto che la mia "star" non era poi così perfetta. Ma dopo tutti quegli anni, se non riuscivo ad averla io, non doveva riuscirci nessun altro.»

«Perciò hai ucciso anche lei.»

«Mettiamola così: ho fatto in modo che raggiungesse il suo miserabile marito.»

«E adesso veniamo a Bruno.»

«Vedi, agente King, ogni grande dramma è in almeno tre atti. Il primo è stato la guardia nazionale, il secondo è stato Ritter.»

«E adesso siamo al terzo atto e al sipario: io e Bruno. Ma perché? Regina è morta. Cosa ci guadagni da tutto questo?»

«Agente King, ti manca l'apertura mentale, la visione per capire quello che ho creato.»

«Scusami, Sidney, ma io sono un tipo terra-terra. E non sono più nel Servizio segreto, per cui puoi anche lasciar perdere l'"agente".»

«No, oggi tu sei un agente del Servizio segreto» ribadì Morse in tono deciso.

«Giusto. E tu sei uno psicopatico. Quando sarà finita, mi assicurerò che tu vada a raggiungere tuo fratello. Potrai lanciargli le palle da tennis.»

Sidney Morse puntò la pistola alla testa di King. «Lascia che ti dica esattamente quello che stai per fare. Quando l'orologio indicherà le dieci e trenta, prenderai posizione dietro il cordone. Tutto il resto è già predisposto. In questo spettacolo hai un ruolo molto importante, sono sicuro che lo conosci. Ti auguro in bocca al lupo per la tua parte. In senso letterale.»

«Quindi sarà una replica esatta del 1996?»

«Be', non proprio esatta. Non voglio che ti annoi.»

«Ehi, magari ci sarà anche qualche sorpresa da parte mia.»

Morse ridacchiò. «Tu non sei della mia categoria, agente King. E ricordati: questa non è la prova generale in costume. È lo spettacolo vero, per cui metticela tutta. E, tanto perché tu lo sappia, questo lavoro verrà rappresentato per una sola sera.»

Morse scomparve nell'ombra e Sean inspirò a fondo. Sidney era intimidatorio e autoritario esattamente come una volta. King sentì che i nervi erano sul punto di cedergli. Sarebbe stato lui solo contro chissà quanti. Aveva una pistola, ma neppure per un attimo aveva pensato che i proiettili non fossero a salve. Guardò l'orologio appeso alla parete: dieci minuti all'inizio. Diede un'occhiata al proprio, che indicava le dodici e trenta. Non sapeva se di giorno o di notte. Ovviamente, Morse poteva avere regolato l'orologio sulla parete all'ora che più gli piaceva.

Sean si guardò intorno, cercando di trovare qualcosa, qualunque cosa, che potesse aiutarlo a sopravvivere. Tutto ciò che vide fu la replica di un orribile evento che non voleva ricordare, né tanto meno rivivere.

E poi gli venne in mente: chi avrebbe recitato il ruolo di Arnold Ramsey? La risposta gli arrivò in un lampo. Tale padre, tale figlia! Quel gran bastardo. Stava davvero per rifarlo.

 

Michelle si muoveva lungo il limitare del bosco, attenta a eventuali presenze nei pressi dell'albergo. E infatti vide Jefferson Parks salire a bordo di un furgone e partire veloce, sollevando ghiaia e polvere. Okay, pensò, un nemico in meno di cui preoccuparsi. Ormai certa di poter tentare in sicurezza, si chinò e, avanzando carponi, si avvicinò alla recinzione. Stava per arrampicarsi, quando si ritrasse di scatto. Il basso ronzio l'aveva lasciata perplessa, ma poi notò il cavo che arrivava al reticolato. Fece qualche passo indietro, raccolse da terra un bastoncino e lo scagliò contro la recinzione. Il rametto sembrò friggere. Stupendo, la rete era elettrificata. Non poteva servirsi del varco perché ne aveva parlato a Parks, che forse, non convinto della sua morte per annegamento, aveva piazzato degli uomini ad aspettarla. In ogni caso, il varco era talmente stretto che non sarebbe riuscita a non toccare la recinzione.

Tornò nel bosco e rifletté sul dilemma. Finalmente ricordò qualcosa che aveva visto in occasione della sua prima visita e si rese conto che poteva essere la sua unica via d'entrata. Corse nell'area dietro il Fairmount, dove l'inclinazione del terreno verso la recinzione costituiva una specie di rampa di lancio. Al liceo era stata campionessa di salto in alto e in lungo, ma era passato parecchio tempo. Valutò le distanze, fece qualche corsetta di riscaldamento, studiò l'altezza della recinzione in rapporto al punto da cui sarebbe saltata. Si tolse le scarpe, le gettò al di là del reticolato, recitò una preghiera, prese un profondo respiro e si lanciò in una corsa disperata. Contò i propri passi, come le era stato insegnato a fare. Mentre la recinzione elettrificata si avvicinava sempre di più, fu quasi sul punto di rinunciare al tentativo. Il fallimento non avrebbe comportato solo qualche lacrima per essere stata battuta a un meeting d'atletica. Questa sconfitta sarebbe stata definitiva.

Si staccò da terra, mentre le gambe, le braccia e la schiena lavoravano all'unisono e la memoria dei muscoli scattava in azione giusto in tempo per inarcare la schiena, ruotare il corpo e farla volare quindici centimetri al di sopra della rete. Non c'era soffice gommapiuma ad attutire la caduta. Michelle, dolorante e ammaccata, si rimise in piedi lentamente e recuperò le scarpe. Raggiunse di corsa l'edificio, trovò un'altra finestra rotta e scivolò all'interno.

 

72

 

Quando le lancette indicarono le dieci e ventisei minuti, dalla stessa porta che King aveva varcato entrò un uomo. John Bruno sembrava confuso, spaventato e sul punto di vomitare. Sean lo capiva benissimo perché anche lui aveva voglia di vomitare. Lui e Bruno erano i cristiani in attesa dei leoni, davanti alla folla assetata di sangue che pregustava il massacro imminente. Quando King gli si avvicinò, Bruno si ritrasse immediatamente. «Per favore, per favore, non mi faccia del male!»

«Non sono qui per farle del male, sono qui per aiutarla.»

Bruno lo guardò disorientato. «Lei chi è?»

King fece per rispondere, poi tacque. Come poteva spiegarsi nei giusti termini? «Sono il suo agente del Servizio segreto.»

Sorprendentemente Bruno sembrò accettare l'affermazione senza discutere. «Cosa sta succedendo? Dove siamo?» domandò.

«Siamo in un albergo. E sta per succedere qualcosa. Non so bene cosa.»

«Dove sono gli altri agenti?»

Sean lo guardò inespressivo. «Vorrei saperlo... signore.» La situazione andava oltre la follia, ma cos'altro avrebbe potuto fare? E doveva ammettere che il comportamento da agente del Servizio gli era venuto più naturale di quanto avrebbe mai pensato.

Bruno notò la porta di uscita della sala. «Non possiamo andarcene?»

«No, non sarebbe una buona idea.» Sean stava osservando le lancette che si spostavano sulle dieci e ventinove. Otto anni prima Ritter era stato davanti a lui, alle prese con la folla adorante. Non avrebbe ripetuto lo stesso errore con Bruno. Lo pilotò accanto al cordone. «Voglio che lei resti dietro di me. Qualunque cosa succeda, rimanga dietro di me.»

«Sì, certo.»

In realtà, Sean avrebbe voluto mettersi alle spalle di Bruno. Dopo tutti quegli anni, era di nuovo al punto di partenza: un maledetto scudo umano.

Estrasse la pistola dalla tasca. Se i proiettili erano a salve, non aveva alcuna possibilità di cavarsela. Osservò il cordone di velluto e fece un passo avanti: adesso era a due centimetri dal cordone, quasi nello stesso punto in cui si era trovato Ritter quando Ramsey gli aveva sparato. Le lancette dell'orologio scattarono sulle dieci e trenta e King inserì un colpo in canna.

«Bene, fate pure entrare i bambini grassi da baciare» mormorò. «Cominciamo.»

 

Michelle sbirciò da dietro l'angolo e vide un uomo davanti alla porta della Stonewall Jackson Room. Armato di pistola e fucile, sembrava quello che aveva interpretato il tiratore della polizia sull'albero e che poi si era unito a Parks per cercare di ucciderla. Non lo vedeva bene in viso, ma sospettava che fosse Simmons. Se era così, lei aveva un vantaggio. Doveva balzare fuori e urlargli di non muoversi? Ma lui forse sarebbe riuscito a sparare una raffica e a essere abbastanza fortunato da colpirla. Inoltre non sapeva dov'era finito Parks: poteva essere nascosto lì vicino, di supporto al complice. Poi Michelle vide l'uomo di guardia dare un'occhiata all'orologio e sorridere. Cosa che poteva solo significare...

Uscì allo scoperto, puntandogli la pistola al petto. Gli gridò, sì, di non muoversi, ma in qualche modo cambiò idea perché sparò nello stesso istante in cui urlò l'avvertimento. I proiettili centrarono il petto e l'uomo cadde a terra con un grido. Michelle gli corse accanto, allontanò la sua pistola con un calcio, si inginocchiò e gli controllò il polso. Il piede nel pesante stivale scattò verso l'alto e la colpì alla spalla. La ragazza cadde scompostamente all'indietro e perse la pistola.

L'uomo si rimise in piedi vacillando, le mani premute sul petto. Com'era possibile? Michelle l'aveva colpito nella parte superiore del tronco. Mentre si rialzava a fatica, rispose quasi immediatamente alla sua stessa domanda: giubbotto antiproiettile. Si lanciò per recuperare la pistola, ma il suo avversario fece la stessa cosa. Cozzarono l'uno contro l'altra e l'uomo riuscì a bloccarle il collo in una morsa mortale.

«Questa volta» le sibilò all'orecchio «morirai, puttana.» Era l'uomo che aveva cercato di ucciderla sul fuoristrada.

Non poteva competere con lui sul piano della forza fisica, per cui decise di sfruttare il suo vantaggio. Gli sferrò una gomitata nel fianco sinistro, nel punto in cui riteneva di averlo ferito quella notte. L'uomo emise un grido di dolore, lasciò la presa e cadde sulle ginocchia. Michelle lo scostò con un calcio, scivolò sul pavimento e cercò freneticamente la pistola. Non appena la strinse tra le mani, si voltò. Simmons si stava rialzando ed estraeva un coltello dalla cintura.

Michelle prese la mira e fece fuoco. Il proiettile penetrò al centro esatto della fronte. Sfinita, la ragazza andò accanto a Simmons e lo guardò dall'alto. E, mentre osservava il cadavere, le venne un'idea. Forse poteva funzionare.

 

73

 

Alle dieci e trentuno minuti esatti, King si rese conto di avere un grosso problema, o per lo meno un ulteriore, grosso problema da aggiungere a tutti gli altri. Lanciò un'occhiata all'ascensore. Se il presente doveva riflettere il passato, là stava per succedere qualcosa. Il problema era che, se quelle porte si fossero aperte e lui non avesse guardato per vedere di cosa si trattava, era possibile che l'attacco arrivasse proprio da quella direzione. Per contro, se avesse guardato come aveva fatto otto anni prima, quella momentanea distrazione avrebbe potuto significare il disastro per sé e per Bruno. Visualizzò Sidney Morse che lo osservava riflettere sul dilemma e rideva compiaciuto.

Si stava avvicinando il momento fatale. King si voltò e afferrò Bruno per un braccio. «Appena le dico di buttarsi giù» gli sussurrò con urgenza «lei si butti giù!»

Mentre la lancetta avanzava verso le dieci e trentadue, Sean aveva quasi la sensazione di poter vedere il movimento di ogni singolo pezzo del meccanismo dell'orologio. Preparò la pistola. Pensò di sparare un colpo per vedere se le pallottole erano vere, ma Morse poteva benissimo avergli dato un solo proiettile autentico e, in quel caso, non voleva sprecarlo. Probabilmente Sidney aveva pensato anche a questo.

La mano che impugnava la pistola cominciò a muoversi in ampi movimenti ad arco e la presa sulla giacca di Bruno si fece più stretta. Il respiro del candidato era sempre più rapido e Sean temette che fosse sul punto di svenire. Gli sembrò addirittura di sentirgli il cuore battere forte, poi si rese conto che quei battiti erano i suoi. Okay, per quanto possibile era pronto.

Le lancette toccarono le dieci e trentadue. Il movimento ad arco della pistola di King si fece più rapido per cercare di coprire ogni centimetro della sala. Le luci si spensero, facendo sprofondare Sean e Bruno nella più completa oscurità. Poi la sala esplose in un caleidoscopio di luci di cui qualsiasi discoteca sarebbe andata orgogliosa. I fasci di luce spazzavano il locale come lampi, mentre ricominciava la cacofonia altissima delle voci. L'ambiente era assordante e accecante e Sean si riparò gli occhi con la mano. Un attimo dopo si ricordò: infilò la mano nel taschino e inforcò gli occhiali da sole. Un punto a favore dei ragazzi con gli occhiali scuri.

E poi ci fu il ding dell'ascensore.

«Accidenti a te, Morse!» gridò King.

Le porte scorrevoli si aprirono. O era solo un trucco? L'indecisione lo dilaniava. Doveva guardare oppure no?

«Giù!» gridò a Bruno. Il candidato si buttò immediatamente a terra. Sean girò la testa, deciso a guardare solo per una frazione di secondo. Non ci riuscì.

Davanti a lui c'era Joan Dillinger. Distante meno di tre metri, sembrava pendere dal soffitto. Le gambe e le braccia erano spalancate, come in croce, il viso era pallido e gli occhi chiusi. King non capiva se quell'apparizione fosse reale oppure no. Fece un paio di passi avanti e tese una mano, che passò attraverso l'immagine. Stupefatto, voltò di scatto la testa verso l'ascensore. E là c'era Joan, legata e appesa a cavi. La sua immagine era stata proiettata con qualche strumento ottico. Sembrava morta.

Fissandola, King provò una rabbia immensa. E questo era probabilmente ciò su cui contava Morse. Gli bastò rendersene conto per calmarsi.

Si voltò di nuovo, solo per irrigidirsi di colpo. Davanti a lui, tra due figure di cartone, c'era Kate Ramsey. Gli puntava una pistola al petto.

«Metti giù la pistola» gli ordinò.

Sean esitò, poi posò l'arma a terra. L'illuminazione della sala tornò normale e gli effetti sonori cessarono.

«Alzati» disse Kate a Bruno. «Alzati, bastardo!» urlò.

Bruno si alzò in piedi, tremante. King mantenne la posizione tra il candidato e la sua potenziale assassina.

«Ascoltami, Kate. Non puoi farlo.»

Da qualche parte tuonò una voce. Era Morse che, nel suo ruolo di regista, dava il via al prossimo "ciack".

«Forza, Kate. Te li ho portati tutti e due, proprio come ti avevo promesso: l'uomo che ha rovinato la carriera di tuo padre e quello che lo ha ucciso. I tuoi proiettili sono rivestiti d'acciaio: un colpo solo e puoi ucciderli entrambi. Fallo. Fallo per il tuo povero papà. Sono stati questi due a distruggerlo.»

Il dito di Kate si irrigidì sul grilletto.

«Non ascoltarlo» le disse King. «È lui che ha incastrato tuo padre. È lui che lo ha convinto a uccidere Ritter. Bruno non c'entra affatto.»

«Stai mentendo» disse la ragazza.

«L'uomo che quella notte hai sentito parlare con tuo padre era Sidney Morse!»

«Non è vero. L'unico nome che ho sentito è stato quello di Thornton Jorst.»

«Non era quel nome: lo credi soltanto. Tu non hai sentito dire "Thornton Jorst", ma "Trojan horse".»

Adesso Kate non sembrava più così sicura.

King insistette, approfittando del piccolo vantaggio: «Sono sicuro che è stato Morse a dirti quello che dovevi raccontare a noi. Ma quella parte era comunque vera, solo che non ne avevi capito il significato». L'espressione di Kate si fece confusa. Il dito allentò appena la pressione sul grilletto.

Sean continuò, parlando in fretta: «Era Morse il cavallo di Troia, la talpa nella campagna di Ritter. È questo che ha detto a tuo padre. Morse sapeva che Arnold odiava ciò che Ritter rappresentava per il paese. A Morse la politica di Ritter non piaceva, ma allora perché si era unito allo staff della sua campagna elettorale? Perché amava tua madre, la sua quasi star di Broadway. Una volta eliminato tuo padre, lei sarebbe stata sua. Invece il piano è fallito e lui l'ha uccisa. E adesso sta usando te, esattamente come ha usato tuo padre».

«È assurdo. Se quello che dici è vero, perché adesso sta facendo tutto questo?»

«Non lo so. È pazzo. Chi, se non un pazzo, metterebbe in piedi una cosa come questa?»

«Sta mentendo, Kate!» rimbombò la voce di Morse. «Io ho fatto tutto questo per te. Perché tu abbia giustizia. Spara a tutti e due!»

Sean fissò Kate, trattenendone lo sguardo. «Tuo padre ha ucciso, ma lo ha fatto per quella che credeva fosse una nobile causa. Quell'uomo...» King indicò la direzione della voce di Morse «quell'uomo è un assassino a sangue freddo, e ha ucciso solo per gelosia.»

«Tu hai ucciso mio padre» ribatté Kate seccamente.

«Stavo facendo il mio lavoro. Non avevo scelta. Quel giorno tu non hai visto l'espressione di tuo padre. Io sì. Sai come sembrava? Vuoi saperlo?»

La ragazza lo guardò con gli occhi pieni di lacrime e annuì.

«Sembrava sorpreso, Kate. Sorpreso. All'inizio ho pensato che fosse per lo choc di avere ucciso una persona. Ma poi mi sono reso conto che era sorpreso perché Morse non aveva estratto la pistola e sparato. Morse era proprio accanto a me. Lui e tuo padre avevano stretto un patto. E tuo padre lo ha guardato. È stato in quel momento che ha capito di essere stato ingannato.»

«Ultima chance, Kate!» gridò Morse. «O li uccidi tu, oppure lo farò io.»

King guardò la ragazza con occhi imploranti. «Non puoi farlo. Non puoi. Ti ho detto la verità. Tu lo sai. Qualsiasi menzogna ti abbia propinato Morse, tu non sei un'assassina e lui non può farti diventare tale.»

«Adesso!» urlò Morse.

Ma Kate cominciò ad abbassare la pistola. La porta della sala si spalancò di colpo. Questo distrasse Kate per un istante e Sean ne approfittò per afferrare il cordone di velluto e sollevarlo con violenza, facendo cadere la pistola dalla mano della ragazza. Kate gridò e cadde all'indietro.

«Fuori!» urlò Sean a Bruno. «Dalla porta!»

Il candidato si voltò e si precipitò verso l'uscita, dalla quale stava entrando Michelle.

L'intensità delle luci aumentò tanto da accecare tutti per qualche istante. Fu Michelle ad accorgersene per prima: gridò e si lanciò avanti. «Bruno, giù!» urlò.

La pistola sparò. Michelle balzò davanti al candidato e la pallottola la colpì al petto.

King puntò la propria arma in direzione dello sparo, fece fuoco e finalmente ebbe la certezza che Morse non aveva avuto alcuna intenzione di dargli una possibilità. La pistola era caricata a salve.

«Michelle!» gridò Sean.

La ragazza non si mosse, neppure mentre Bruno si precipitava fuori dalla sala. Le luci si spensero di nuovo, facendoli precipitare nel buio.

 

74

 

Sean si chinò nel buio, cercando freneticamente qualcosa. Poi le luci si riaccesero, anche se meno brillanti di prima. Percepì una presenza alle sue spalle e si voltò. Era Sidney Morse, con la pistola in pugno.

«Sapevo che non ne avrebbe avuto il coraggio.» Spostò la pistola in direzione di Kate, ancora a terra. «Non assomigli a tuo padre!» Indicò la sala con un ampio gesto della mano. «Ti avevo dato un grande palcoscenico su cui esibirti, Kate. Ti avevo dato un copione perfetto e questo era il gran finale. Tua madre avrebbe dato un'interpretazione scintillante. Tu hai fallito miseramente.»

King aiutò la ragazza a rialzarsi e poi si frappose tra lei e Morse.

«Di nuovo lo scudo umano, eh, Sean?» disse Morse, sorridendo. «Sembra che sia proprio il tuo miserabile destino nella vita.»

«Bruno è scappato e io ti ucciderò perché hai sparato a Michelle.»

Morse lo guardava, sicuro di sé. «Bruno non uscirà vivo dal Fairmount. Per quanto riguarda la Maxwell, la sua fortuna si è esaurita. Se non altro, è caduta in combattimento. Cosa potrebbe chiedere di più un agente del Servizio segreto?»

Rivolse l'attenzione a Kate. «Dunque, tu hai fatto una domanda: perché tutto questo? Adesso te lo spiego. John Bruno non c'entra più di quanto c'entrasse Clyde Ritter.» Puntò la pistola contro la ragazza. «Otto anni fa si trattava di tuo padre. Oggi riguarda te, mia cara, dolce Kate.»

«Me?» domandò Kate, il petto che si sollevava e si abbassava ansimante, le lacrime che le scorrevano lungo il viso.

Morse rise. «Sei una stupida, proprio come tuo padre.» Guardò King. «Tu hai detto che Regina mi ha respinto perché non mi amava, perché non voleva la magia. Questo è vero solo in parte. Io credo che lei mi amasse. Ma, anche dopo la morte di Arnold, non le è stato possibile tornare sulle scene, diventare di nuovo la mia star: c'era un'altra persona che aveva bisogno di lei più di me.» Si rivolse di nuovo a Kate: «Tu. Tua madre non poteva lasciarti, diceva che avevi bisogno di lei. Eri tutta la sua vita. Aveva incredibilmente torto: cos'era un'unica, patetica adolescente a paragone di una carriera leggendaria a Broadway, di una vita con me?».

«Un uomo come te non può capire l'amore vero» disse King. «E come puoi incolpare Kate per quello che è successo con Regina? Lei non ne sapeva niente.»

«Posso incolparla di tutto quello che voglio!» strillò Morse. «E poi, per completare l'opera, quando Regina ha deciso di sposare quell'idiota di Jorst, Kate è stata completamente a favore. Oh, sì, avevo le mie spie. La ragazzina voleva un uomo uguale a suo padre. Basterebbe questo a giustificare la sua morte. Ma c'è dell'altro. Ho seguito la tua carriera, Kate. Crescendo, sei diventata esattamente come il tuo miserabile padre, con le tue patetiche manifestazioni di protesta, le marce, quel tuo volere essere la nobile benefattrice. Era tutto un déjà vu. Io avevo ucciso Arnold, ma eccolo di nuovo, tornato in vita come l'Idra.» Gli occhi di Morse si strinsero mentre fissavano la ragazza. In tono più calmo, aggiunse: «Tuo padre mi ha rovinato la vita prendendosi la donna di cui avevo bisogno, la donna alla quale avevo diritto. E, quando lui è morto, tu hai preso il suo posto. Se non fosse stato per te, Regina sarebbe stata mia».

«Mia madre non avrebbe mai amato uno come te» ribatté Kate in tono di sfida. «Non riesco a credere di essermi fidata di te.»

«Be', sono un ottimo attore anch'io, Kate. E tu eri così ingenua. Quando Bruno ha annunciato la sua candidatura ho subito pensato a te. Che colpo di fortuna! L'uomo che aveva sostenuto l'accusa contro Arnold per il delitto in cui io stesso l'avevo incastrato si candidava alla stessa carica per la quale aveva corso la vittima di tuo padre. Era perfetto. L'idea della replica mi è balenata immediatamente. E così sono venuto da te, ti ho raccontato la triste storia del tuo povero papà e tu ti sei bevuta ogni sillaba.»

Kate fece per scagliarsi contro Morse, ma Sean la trattenne.

«Mi hai detto che eri stato amico dei miei genitori» gridò la ragazza. «Che avevi aiutato mio padre quando era stato arrestato per omicidio e che John Bruno gli aveva distrutto la carriera.» Si voltò verso King. «Mi ha portato tutti quei ritagli di giornale, mi ha raccontato che conosceva i miei genitori e che li aveva aiutati, molto prima che io nascessi. Loro, però, non mi avevano mai parlato di lui. Morse mi ha raccontato che quel giorno c'era anche lui al Fairmount e che tu non eri stato costretto a uccidere mio padre, che lui stava già abbassando la pistola quando gli hai sparato. Ha detto che tu in realtà eri un assassino.» Si rivolse di nuovo a Morse: «Erano tutte bugie».

L'uomo scosse la testa. «Naturalmente. Facevano parte della commedia.»

«È sempre pericoloso credere a un pazzo, Kate» disse Sean.

«Non un pazzo, agente King: un visionario. Ma te lo concedo: tra le due cose il confine è molto tenue. E ora» disse Morse con un drammatico gesto della mano «veniamo al terzo e ultimo atto. La tragica morte di Kate Ramsey mentre, aiutata e fiancheggiata dal povero e squilibrato ex agente del Servizio segreto Bob Scott, vendica l'amato padre, portando con sé nell'aldilà John Bruno e Sean King. Ovviamente con tutte le prove a sostegno che, per mia gentile concessione, verranno trovate in seguito. Se ci pensate bene, la simmetria è stupefacente: padre e figlia, entrambi assassini di due candidati presidenziali, uccisi nello stesso posto. È davvero una delle pièce migliori che abbia mai scritto.»

«E tu sei davvero pazzo» disse King.

«I mediocri si scagliano sempre più contro le menti brillanti» ribatté Morse in tono compiaciuto. «E ora l'ultimo componente della famiglia Ramsey, la bella, affettuosa famiglia Ramsey, finalmente sparirà dalla faccia della terra. Sono sicuro che morirai in modo stupendo, Kate. Dopodiché potrò andare avanti con la mia vita. Le mie capacità artistiche sono tornate al massimo. Mi aspettano una nuova identità e l'Europa. Le possibilità sono illimitate, perfino senza tua madre.» Puntò la pistola contro Kate.

Anche King alzò la pistola. «In effetti, Sidney, ho ridotto le tue opzioni a una soltanto.»

«Quella spara solo a salve» disse Morse. «L'hai visto pochi minuti fa.»

«È proprio per questo che ho fatto cadere la pistola di Kate e l'ho raccolta quando hai spento le luci.»

«Stai bluffando.»

«Tu dici? C'è una pistola sul pavimento. Se vuoi, puoi andare a controllarla, ma appena ti muovi, io ti sparo. Assomiglia un po' al tuo trucco dell'ascensore. All'apparenza le due pistole sono identiche, impossibile distinguerle. Ma va' pure a dare un'occhiata. Quando poi ti arriverà un proiettile in testa, capirai di avere avuto torto. Hai combinato un casino, Sidney: sul set non bisogna mai perdere di vista le armi di scena. Un regista brillante come te dovrebbe saperlo.»

Morse non sembrava più così sicuro di sé.

King insistette: «Cosa c'è, Sidney, sei nervoso? Non ci vuole molto a sparare a un uomo disarmato o ad annegare vecchie signore nella vasca da bagno. Ma adesso potremo vedere quanto sei davvero coraggioso, dato che non sei più al sicuro dietro le quinte. Sei la star dello spettacolo, al centro della scena, e il tuo pubblico sta aspettando».

«Sei un pessimo attore. La tua recita è poco convincente» replicò Morse, ma c'era tensione nella voce.

«Hai ragione, non sono un attore, ma che bisogno c'è? Questa non è una finzione. I proiettili sono veri, almeno uno di noi morirà e nessuno dei due concederà il bis. Sai una cosa? I duelli funzionano sempre a teatro, perciò facciamocene uno, Sid. Solo tu e io.» Sean mise il dito sul grilletto. «Al mio tre.»

Inchiodò con lo sguardo Morse, che adesso era pallido e respirava affannosamente.

«Su, forza. Non andarmi in pezzi proprio adesso. Sono solo un ex agente del Servizio segreto. Certo, ho fatto fuori uomini che mi stavano sparando, ma quanto posso essere in gamba? Come dicevi, non sono certamente della tua categoria.» King fece una pausa e poi iniziò a contare. «Uno...»

La mano di Morse aveva cominciato a tremare. L'uomo fece un passo indietro.

Sean serrò la presa sull'impugnatura della pistola. «Non sparo un colpo da otto anni. Tu ricordi l'ultima volta che l'ho fatto, vero? Mi sento così arrugginito... Con questa luce, e anche a distanza così ravvicinata, probabilmente riuscirò a centrarti solo al torace. Basterà comunque per ucciderti.»

Respirando ancora più rapidamente, Morse fece un altro passo indietro.

«Due.» Lo sguardo di King non abbandonava gli occhi dell'avversario. «In scena, Sidney, e non dimenticare l'inchino al pubblico prima di crollare a terra con un bel buco nel petto. Ma non ti preoccupare: la morte sarà istantanea.»

Mentre Sean cominciava a dire "tre", Morse gridò. Le luci si spensero. King si chinò e il proiettile gli sibilò sopra la testa. Sospirò di sollievo. Il trucco aveva funzionato.

 

Un minuto dopo, la donna che aveva sparato a Michelle avanzò nel buio tra le figure di cartone verso King. Non appena le luci si erano spente, Tasha aveva indossato gli occhiali per la visione notturna che le consentivano di vedere tutto distintamente, mentre King non vedeva nulla. Passò accanto a Michelle, ancora distesa a terra, poi si rannicchiò tra due sagome di cartone. Sean e Kate si erano spostati in un angolo, ma dalla posizione in cui si trovava Tasha aveva la visuale libera. Gli ordini che le erano appena stati impartiti parlavano chiaro: qualunque cosa accadesse, Sean King e Kate Ramsey dovevano morire.

Tasha sorrise e prese la mira. Uccidere, era quello il suo mestiere. E adesso stava per aggiungere altri due centri al suo elenco.

Il leggero rumore alle spalle la fece voltare di colpo. Il fascio di luce di una torcia le ferì gli occhi, accecandola, e venne seguito da qualcosa di molto più letale. Quando la pallottola le si conficcò nella testa, la sua carriera omicida giunse bruscamente alla fine.

Michelle si alzò sulle gambe vacillanti. Si passò una mano sul petto, nel punto in cui il proiettile era penetrato nel giubbotto antiproiettile che aveva preso a Simmons. L'impatto l'aveva messa completamente fuori combattimento. Il dolore era fortissimo, ma era ancora viva. Per fortuna aveva ripreso i sensi giusto in tempo.

Individuò King e Kate servendosi della torcia. «Scusate, ho avuto un piccolo problema, altrimenti vi avrei aiutato molto prima. State bene?»

King annuì. «Hai visto Sidney Morse?» domandò.

«C'è Sidney dietro tutto questo?» Sean annuì. Michelle era perplessa. «Credevo che si trattasse di Peter.»

«Anch'io l'ho capito solo pochissimo tempo fa. Hai un coltello?»

Michelle gliene porse uno. «L'ho preso a Simmons insieme alla torcia. Cosa vuoi fare?»

«Aspettami fuori. E porta Kate con te.»

Michelle e Kate si diressero verso la porta. King si avvicinò all'ascensore, dove c'era Joan, ancora legata. Le controllò il polso: era viva. Tagliò la corda a cui era appesa, si caricò la donna sulle spalle e raggiunse Michelle e Kate all'esterno.

Adagiò subito Joan sul pavimento, poi si piegò su se stesso e cominciò a inspirare grandi boccate d'aria. Gli effetti del confronto con Morse si stavano facendo sentire.

«Cosa c'è?» gli domandò Michelle.

«Forse sto per vomitare» rispose seccamente King. «Ecco cosa c'è.»

«Hai bluffato con la storia della pistola, vero?» gli domandò Kate. «Non era la mia.»

«Sì, ho bluffato» confermò Sean a denti stretti.

Michelle gli posò una mano sulla schiena. «Adesso passa, vedrai.»

«Sono troppo vecchio per queste stronzate da macho.» Dopo qualche altro respiro profondo, si raddrizzò. «Sentite anche voi odore di fumo?»

Tutti e tre corsero verso l'uscita, ma vennero fermati da un Bruno terrorizzato. Il candidato indicò il fondo del corridoio, dove le fiamme erano già impenetrabili. Un'altra barriera di fuoco bloccava l'accesso ai piani superiori.

Michelle vide un cavo nero sul pavimento. Lo indicò a King.

«È quello che penso?»

Sean lo studiò. Quando rialzò lo sguardo, era pallido. «Ha collegato cariche di esplosivo in tutto l'edificio.» Si guardò intorno. «Okay, non possiamo uscire e non possiamo salire.» Lanciò un'occhiata nell'altra direzione. «E, se ben ricordo, di là si va nel sotterraneo. Che non ha uscite.»

«Aspetta un momento!» disse Michelle. «Dal sotterraneo si può uscire.»

 

75

 

Seguiti dal fumo sempre più denso, raggiunsero il sotterraneo. Le luci erano accese, il che consentiva una visione abbastanza buona.

«Okay, e adesso?» chiese King, osservando il lungo corridoio che, circa a metà altezza, era ostruito dai detriti. «Ti ho già detto che quaggiù non ci sono uscite: l'abbiamo verificato quando siamo venuti qui con Ritter.»

«No, io parlavo di questo» disse Michelle. Aprì lo sportello del piccolo ascensore, simile a un montavivande. «Possiamo salire fino al terzo piano.»

«Il terzo piano!» esclamò Bruno, rabbioso. «E poi cosa facciamo, ci buttiamo di sotto? Brillante, agente Maxwell, davvero brillante!»

Michelle si mise le mani sui fianchi e si piazzò davanti al candidato. «Questa volta farai esattamente quello che dico io, perciò sta' zitto ed entra là dentro... signore.» Spinse Bruno nell'ascensore e poi si voltò verso Kate.

King si fece avanti. «Tu sali con Bruno, rimandi giù il montavivande e io ti seguo con Joan e Kate.»

Michelle annuì e gli tese la pistola. «Pallottole vere. Sta' attento.»

Entrò nella cabina e, aiutata da Bruno, cominciò a issare l'ascensore tirando la fune.

Mentre King tentava di far rinvenire Joan, Kate si afflosciò sul pavimento.

«Lasciami qui. Non voglio più vivere.»

Sean si chinò accanto a lei. «Morse ti ha manipolato la testa e il cuore, una combinazione difficile da sconfiggere. Malgrado tutto, però, non sei riuscita a premere quel grilletto.»

«Sono una stupida. Voglio solo morire.»

«No, tu non vuoi morire. Hai tutta la vita davanti a te.»

«Giusto. E per cosa? Il carcere?»

«Cos'hai fatto di male? Non hai ucciso nessuno. Per quello che ne so, Morse ha rapito anche te e ti ha tenuto prigioniera qui.»

Kate lo fissò. «Perché faresti questo per me?»

Sean esitò, poi rispose: «Perché ti ho portato via tuo padre. Stavo solo facendo il mio lavoro, ma, quando togli la vita a qualcuno, questo non sembra una giustificazione sufficiente.» Fece una pausa. «E hai cercato di aiutarci. Tu sapevi che la storia che ci avevi raccontato sulle proteste contro la guerra nel 1974 non avrebbe retto, vero? Sapevi di esserti cacciata in una bruttissima faccenda. Ho ragione, giusto?»

Sentirono l'ascensore che stava scendendo.

«Okay, adesso andiamocene di qui» disse King.

Mentre l'aiutava a rialzarsi, Kate all'improvviso urlò. Sean si voltò.

Sidney Morse, emerso dal fumo, era già accanto a loro. Roteò la sua spranga metallica per colpire Sean, il quale però si buttò a terra, evitando il colpo.

Disteso sulla schiena, estrasse la pistola di Michelle e la puntò contro Morse.

«Basta con i bluff» ringhiò Morse.

«Basta con i bluff» ribadì King.

La pallottola lo centrò nel petto. Sbigottito, Morse si piegò sulle ginocchia, lasciando cadere la spranga. Abbassò gli occhi, toccò il sangue che gli usciva dalla ferita, poi fissò con sguardo ottuso King.

L'ex agente si rialzò lentamente e gli puntò la pistola al cuore. «Il primo colpo era per me. Questo è per Arnold Ramsey.» Premette il grilletto e Morse crollò all'indietro, morto.

«E avresti anche dovuto dimostrare molto più rispetto per il Servizio segreto» aggiunse Sean a bassa voce, guardando il cadavere dall'alto.

Poi notò il sangue su un'estremità della spranga e si sentì raggelare. Si voltò e guardò incredulo Kate. Aveva la schiena appoggiata al muro e un lato della testa sfondato. Morse aveva mancato lui, però aveva colpito lei. Gli occhi senza vita della ragazza lo fissavano. Morse aveva ucciso padre e figlia. Sean si inginocchiò e, con delicatezza, le chiuse gli occhi.

Sentì Michelle che lo chiamava, gridando nel vano dell'ascensore, ma continuò a guardare la ragazza morta per un lungo momento. «Mi dispiace, Kate. Mi dispiace terribilmente.»

Prese Joan tra le braccia e la mise nell'ascensore, poi entrò a sua volta nella cabina e cominciò a tirare la fune con tutte le sue forze

In una stanzetta del sotterraneo, il timer che Morse aveva attivato prima del suo attacco omicida scattò sui meno trenta secondi e continuò a ticchettare.

Raggiunto il terzo piano, King estrasse Joan dalla cabina e spiegò a Michelle cos'era successo a Kate e a Morse.

«Stiamo perdendo tempo» intervenne Bruno, al quale evidentemente la morte della giovane non poteva importare di meno. «Come facciamo a uscire di qui?»

«Da questa parte» rispose Michelle, mentre correva già lungo il corridoio. Arrivati in fondo, indicò lo scivolo per le immondizie fissato alla finestra. «C'è un enorme cassonetto in fondo allo scivolo.»

«Io non salto dentro un contenitore di rifiuti» protestò Bruno, indignato.

«Invece sì» replicò Michelle.

Bruno sembrò sul punto di esplodere per la collera, ma poi notò lo sguardo terribilmente serio negli occhi di Michelle. Salì sullo scivolo e, aiutato da una spinta della ragazza, sfrecciò verso il basso, urlando per tutta la durata della discesa.

«Adesso tocca a te» disse Sean.

Michelle salì sullo scivolo e scomparve.

Mentre King, con Joan sulle spalle, si arrampicava sullo scivolo, il timer scattò a meno cinque secondi.

Il Fairmount Hotel cominciò a implodere nell'attimo stesso in cui Sean e Joan atterravano nel cassonetto. La violenza della disintegrazione dell'albergo ribaltò il grosso contenitore, il che probabilmente fu una fortuna, perché il fondo metallico li protesse dall'impatto della scossa, dal fumo e dai detriti. L'urto fu tale da spostare avanti per più di tre metri il cassonetto, che si arrestò a poche decine di centimetri dalla recinzione elettrificata.

Quando il polverone cominciò a diradarsi, uscirono allo scoperto e guardarono l'ammasso di macerie che un tempo era stato il Fairmount Hotel. Svanito, insieme ai fantasmi di Arnold Ramsey e Clyde Ritter, insieme allo spettro della colpa che aveva tormentato King per tutti quegli anni.

Sean spostò lo sguardo su Joan, che stava gemendo. Lentamente, la donna si mise a sedere e si guardò intorno, gli occhi finalmente a fuoco. Vide John Bruno ed ebbe un sussulto. Si voltò e guardò King con espressione di totale sorpresa.

Sean si strinse nelle spalle e le disse: «Sarà meglio che cominci a prendere lezioni di catamarano».

Poi si girò verso Michelle, che gli fece un debole sorriso. «È finita, Sean.»

King contemplò le macerie. «Sì, forse finalmente è finita.»

 

EPILOGO

 

Alcuni giorni dopo, seduto sopra un informe pezzo di legno bruciacchiato che aveva fatto parte della bella cucina, Sean King osservava il luogo dove una volta c'era stata la sua casa. Si voltò quando sentì arrivare un'auto.

Joan scese dalla BMW.

«Mi sembri completamente ristabilita.»

«Non so se lo sarò mai.» La donna si sedette di fianco a King. «Senti, perché non vuoi i soldi? Un patto è un patto. Te li sei guadagnati.»

«Con tutto quello che hai passato, te li meriti più di me.»

«Tutto quello che io ho passato! Santo cielo, io ero drogata. Tu hai vissuto un incubo ed eri completamente sveglio e consapevole.»

«Prendi i soldi e goditi la vita.»

Joan gli prese una mano. «Allora perché non vieni con me? Se non altro potrei assicurarti lo stile di vita a cui eri abituato.» Tentò un sorriso coraggioso.

«Grazie, ma credo che resterò qui.»

Joan osservò la devastazione intorno a loro. «Qui? E cosa c'è qui?»

«Be' è la mia vita» rispose Sean, ritraendo lentamente la mano.

Joan si alzò in piedi, imbarazzata. «Per un attimo ho pensato che la favola a lieto fine potesse avverarsi.»

«Avremmo litigato tutto il tempo.»

«E sarebbe stata una brutta cosa?»

«Fammi sapere come te la cavi» disse Sean. «Ci tengo.»

Joan sospirò, si asciugò gli occhi e poi guardò le montagne. «Non credo di averti ancora ringraziato per avermi salvato la vita.»

«Mi hai già ringraziato. E tu per me avresti fatto la stessa cosa.»

«Sì, è vero» ammise seria la donna. Si voltò e fece per andarsene. Aveva un atteggiamento così avvilito che King si alzò per abbracciarla. Joan gli diede un bacio sulla guancia.

«Abbi cura di te» gli disse. «E cerca di essere più felice che puoi.» Si avviò verso l'auto.

«Joan?» Lei si voltò. «Non ho mai detto a nessuno che dentro quell'ascensore c'eri tu perché tenevo molto a te. Ci tenevo moltissimo.»

 

Rimase di nuovo solo, ma dopo un po' arrivò Michelle.

«Ti chiederei come va, ma credo di sapere già la risposta» disse la ragazza, raccogliendo da terra un frammento di muro. «Puoi ricostruirla, Sean, meglio di prima.»

«Certo, solo che sarà più piccola. Sono in una fase di ridimensionamento della vita. Linee semplici e pulite, magari con un po' di disordine qua e là.»

«Adesso non diventarmi matto. Ma intanto dove abiterai?»

«Sto pensando di prendere in affitto dal porticciolo del lago una casa galleggiante e di ormeggiarla qui. Potrei passarci l'inverno e forse la primavera, mentre ricostruisco.»

«Ha l'aria di un programma.» Gli lanciò un'occhiata nervosa. «Allora, come sta Joan?»

«È partita con la sua nuova vita.»

«E con i suoi nuovi milioni. Perché non ti sei preso la tua parte?»

«La schiavitù retribuita non è poi quella gran cosa che si dice.» Si strinse nelle spalle. «Joan è una brava persona, se si guarda sotto quella corazza di titanio. E credo che mi ami davvero. In circostanze diverse, forse tra noi avrebbe potuto funzionare.»

Michelle aveva l'aria di voler sapere quali circostanze esattamente l'avessero impedito, ma decise che era meglio non fare domande.

«Da dove arrivi? Washington?» le domandò King.

«Sì, dovevo sistemare alcune cose. Bruno si è ritirato dalle elezioni, fortunatamente per l'America. A proposito, hanno arrestato Jefferson Parks al confine con il Canada. E così tu sospettavi di lui?»

«Sì, ma solo verso la fine. Tutta la faccenda è cominciata quando Howard Jennings è stato trasferito a Wrightsburg ed è venuto a lavorare per me. Era Parks che lo gestiva. Era l'unico che poteva avere organizzato la cosa.»

«Be', è un particolare che avevo sotto il naso e che non sono mai riuscita a vedere.» Michelle scosse la testa e continuò: «Era stato Parks ad arruolare Simmons e Tasha Reed, la donna alla quale ho sparato all'hotel; tutti e due erano nel programma protezione testimoni. Ed era Morse che pagava tutti quanti. Il mandato nei confronti di Bob Scott era un falso: Parks l'aveva messo nella scatola che ha dato a Joan in modo da mandarci al bunker che Morse aveva comprato a nome di Scott. Hanno trovato il cadavere di Scott tra le macerie».

«Tutto in nome dell'amore» commentò Sean stancamente.

«Già, la versione morbosa e contorta di Sidney Morse.» Michelle si sedette accanto a King. «Adesso cosa farai?»

«Cosa posso fare? Tornerò a fare l'avvocato.»

«Mi stai dicendo che, dopo tutte queste eccitanti emozioni, vuoi tornare ai contratti d'affitto e ai testamenti?»

«È un modo per guadagnarmi da vivere.»

«Già, ma non è veramente vivere, non credi?»

«E tu? Immagino che ti avranno reintegrato nel Servizio.»

«Ho presentato le dimissioni questa mattina. È per questo che sono andata a Washington.»

«Michelle, sei impazzita? Hai appena buttato via anni della tua vita.»

«No, mi sono risparmiata altri anni impiegati a fare qualcosa che in realtà non voglio fare.» Si fregò il petto, nel punto in cui era stata colpita dal proiettile destinato a Bruno. «Ho fatto lo scudo umano, non proprio il modo più salutare di passare il tempo. Penso di avere un polmone ammaccato.»

«Allora cosa farai?»

«Be', ho una proposta per te.»

«Un'altra proposta da una bella signora. Cos'ho fatto per meritarmelo?»

Prima che Michelle potesse rispondere, arrivò un furgone. Era della A-l Security. Dal veicolo scesero due uomini in tuta da lavoro e cinturone con gli attrezzi.

«Cristo santo» esclamò il più anziano, guardandosi intorno. «Cos'è successo qui?»

«Credo di aver scelto un brutto momento per ordinare il vostro sistema d'allarme» disse King.

«Direi anch'io. Immagino che lei oggi non abbia bisogno di noi.»

«No, ma appena avrò un'altra casa sarete i primi che chiamerò.»

«È stato un incendio in cucina?»

«No, una bomba nel seminterrato.»

Il tecnico più anziano fissò King per un istante, poi fece nervosamente cenno al suo aiutante di risalire sul furgone. I due si allontanarono veloci, alzando nugoli di ghiaia.

«Okay. La tua proposta?» domandò Sean.

«Giusto, adesso te la dico.» Michelle fece una pausa e poi, in tono drammatico, dichiarò: «Fondiamo un'agenzia di investigazioni private».

Sean la guardò, ammutolito. «Vuoi ripetere, per favore?»

«Mettiamo su la nostra ditta di indagini private.»

«Noi non siamo detective.»

«Certo che lo siamo. Abbiamo appena risolto un enorme, complicato mistero.»

«Non abbiamo un solo cliente.»

«Li avremo. Il mio telefono sta per fondere con tutte le proposte di lavoro che arrivano. Ha telefonato perfino la società per cui lavorava Joan: volevano che prendessi il suo posto. Ma io mi sono detta: che diavolo, mettiamoci in affari per conto nostro.»

«Tu stai parlando sul serio, vero?»

«Così sul serio da avere già versato un anticipo per un piccolo cottage a meno di due chilometri da qui. Con vista sul lago. Posso fare canottaggio e sto anche pensando di comprarmi una barca e una moto d'acqua. Forse ti inviterò. Potremo fare delle gare.»

King la fissò e scosse la testa, stupefatto. «Ti muovi sempre alla velocità della luce?»

«Io credo che, se rifletti troppo, lasci che a volte la vita ti passi accanto. E le mie migliori decisioni sono sempre state prese al volo. Allora, cosa ne dici?» Tese la mano. «Affare fatto?»

«Vuoi una risposta subito?»

«Subito è un momento buono come qualsiasi altro.»

«Ecco, se vuoi una risposta subito, bisognerà che...» Guardò il viso sorridente di Michelle e quella piccola scintilla che le brillava sempre negli occhi, poi pensò ai successivi trent'anni impiegati a guadagnarsi da vivere stilando documenti in un linguaggio legale ottenebrante. Si strinse nelle spalle e disse: «Be', allora bisognerà che sia un sì». Si strinsero la mano.

«Okay» disse Michelle, eccitata «non ti muovere, dobbiamo fare le cose per bene.»

Corse al suo fuoristrada, aprì la portiera e immediatamente scivolarono fuori un paio di sci e uno snowboard.

«Spero che il tuo ufficio sarà più ordinato del tuo fuoristrada» disse King.

«Oh, lo sarà, Sean. Nella vita professionale sono molto organizzata, sul serio.»

«Uh-uh» fece King dubbioso.

Michelle risistemò gli attrezzi sportivi e tornò accanto a Sean con una bottiglia di champagne e due bicchieri.

«A te l'onore» gli disse, porgendogli la bottiglia.

King guardò l'etichetta e poi fece saltare il tappo. «Ottima scelta.»

«Deve esserlo, con quello che costa.»

«Allora, come la chiamiamo questa neonata agenzia?» chiese Sean, versando lo champagne.

«Stavo pensando... King e Maxwell.»

Sean sorrise. «L'età prima della bellezza?»

«Qualcosa del genere.»

King le porse il bicchiere.

«Alla King e Maxwell» disse Michelle.

E fecero ufficialmente cincin.

 

RINGRAZIAMENTI

 

A Michelle, la mia ammiratrice numero uno, la mia migliore amica e il grande amore della mia vita. Senza di te, non sarei qui.

A Rick Horgan, per un altro splendido lavoro di editing. Credo che ci dobbiamo una birra a vicenda.

A Maureen, Jamie e Larry, per tutto il vostro aiuto e sostegno.

A Tina, Martha, Bob, Tom, Conan, Judy, Jackie, Emi, Jerry, Karen, Katharine, Michele, Candace e a tutti i componenti della famiglia Warner Books per avere sempre dato il massimo per me.

Ad Aaron Priest, la luce che mi ha guidato in più di un modo.

A Maria Rejt, per i suoi commenti penetranti.

A Lucy Childs e Lisa Erbach Vance, per quello che fate dietro le quinte.

A Donna, Robert, Ike, Bob e Rick, per tutto il vostro aiuto e gli inestimabili suggerimenti.

A Neal Schiff, per la saggezza e l'aiuto.

Alla dottoressa Monica Smiddy, per tutte le riflessioni e le informazioni specialistiche. Il tuo entusiasmo travolgente è stato molto apprezzato.

Alla dottoressa Marina Stajic, per tutto il tuo aiuto. Parlare con te è stato affascinante.

A Jennifer Steinberg, per avere trovato, ancora una volta, tante risposte.

Alla mia meravigliosa amica dottoressa Catherine Broome, per avere pazientemente risposto a tutte le mie domande.

A Bob Schule, per essere un grande amico e un consulente di classe, per avere letto le prime bozze e per avermi dato tanti buoni consigli.

A Lynette e Deborah, per avere mantenuto l'"impresa" sulla giusta rotta.

E infine le mie scuse a quei passeggeri che, a bordo di un treno dell'Amtrak Acela, mi hanno sentito discutere di tecniche d'avvelenamento con vari esperti e con ogni probabilità si sono spaventati a morte a causa delle mie intenzioni apparentemente diaboliche.

 

FINE